La tentazione contemporanea di fuggire da sé opera molti danni, ed è questo aspetto che dobbiamo imparare a riparare attraverso un dialogo corpo-mente, in grado di allargare le nostre prospettive interiori, permettendoci di interagire con vissuti articolati senza indietreggiare. Il bisogno continuo di stabilizzarci, di non tollerare il rischio, di determinare sempre in anticipo ciò a cui si va incontro nella realtà, genera una forte dose di angoscia. La troviamo nel desiderio di alleggerirci, nello stress, nell’intrattenimento continuo che cerchiamo nelle cose. Questo sistema è stato generato da un bisogno iniziale di reagire ai problemi esterni, ma una volta che tale meccanismo ha raggiunto l’apice, non siamo più disposti a riappropriarci di quell’incertezza che caratterizza l’esistenza, un'esperienza invece molto presente nelle vite dei nostri predecessori, impegnati a costruire maggior benessere anche per noi. Abbiamo paura del domani e dell’ignoto, abbiamo paura della vita stessa. La complessità sociale alimenta questi aspetti, stabilizzando un pensiero riduzionista, concentrato sugli obiettivi e teso a disconoscere ciò che non si inquadra nelle categorizzazioni preventivate dal linguaggio produttivo. Temiamo il confronto con gli altri e dunque ci circondiamo di cose o di animali, non tanto per apprendere qualcosa da loro ma per riempire il nostro vuoto fobico che fatica a trovare pace. In generale c’è un problema a costruire legami; il misurarsi costantemente con gli altri ha sfilacciato i rapporti e la possibilità di appartenenza che questo genera. “Ci si aspetta che l’eccezionale venga dall’altro, ma non ci si rende conto che l’altro diventa straordinario attraverso il nostro sguardo: è il nostro sguardo straordinario che rende l’ordinario straordinario. Di fatto, aspettiamo passivamente (in una sorta di 'appiattimento' dello sguardo) che lo straordinario bussi alla porta. Ma se lo straordinario bussa alla porta, sarà al massimo per chiedere indicazioni.” (M. Benaysang, Funzionare o Esistere?, ed. Vita e Pensiero, Milano 2019, p. 17) Dovremmo intanto ripartire dal coraggio, da quel coraggio che ha dato vita a ciò che siamo oggi, tutti figli di un’Europa travolta dalla Seconda Guerra Mondiale, una tragedia che è stata la conseguenza di un problema politico, ma che a monte tradiva il bisogno di affermare che l’uomo, grazie alla potenza della tecnologia, poteva fare a meno della propria parte debole. Bisognava svincolarsi da ciò che angosciava e rallentava: il confronto con la propria vulnerabilità. Questa vulnerabilità trasformata in forza propulsiva da soggetti sociali deboli è ciò che ci ha invece permesso di essere in pace per molto tempo. “Armate e disarmate, in gonna e pantaloni, tutte insieme. Chi rompe i codici, chi li reinventa, chi se li tiene stretti. Ognuna ha dedicato tempo alla Resistenza a modo proprio.[…] Affondando le mani nelle loro storie e nel terreno delle lotte della primavera del ’43, distinguiamo il profilo di radici che risalgono indietro nel tempo.[…] Possiamo prendere la rincorsa dal passato per spiccare il volo. Eleggere i nostri antenati — e antenate — spirituali tra coloro che possono aiutarci a dirigere meglio i nostri passi. Ancora una volta, liberazione dentro la Liberazione, dentro l’anima e nel mondo: la cifra della Resistenza delle donne.” (B. Tobagi, La Resistenza delle Donne, pp. 27, 154, 339) Le donne della Resistenza ci hanno lasciato una testimonianza di coraggio, vale anche per gli uomini, naturalmente, ma ciò che colpisce di questo insieme femminile, in grado di costituire il GDD (Gruppo Difesa Donne), sta nel fatto che era molto più difficile farlo; partivano da una condizione di grande svantaggio, ma erano animate da un grande fuoco sotterraneo: avere un ruolo nel mondo, portare fuori il desiderio di un’espressione autonoma. E così hanno intonato un canto, un canto che prometteva un futuro, e oggi siamo tutti figli di questo slancio, presente dentro di noi e che ci spinge verso l’espressione personale con coraggio e determinazione. Questo coraggio, che nasce dalla volontà di trasformare il dolore e la vulnerabilità in forza, non appartiene solo alla storia, ma è la chiave di volta per affrontare anche le sfide contemporanee. Proprio come le donne della Resistenza hanno saputo rispondere a un contesto di oppressione e incertezza, così anche oggi siamo chiamati a evolverci di fronte a nuove forme di difficoltà. L'evoluzione non è solo un fatto storico o biologico, ma è soprattutto un movimento interiore, un processo continuo di adattamento e trasformazione che ci permette di affrontare l'ignoto e di trovare nuove forme di equilibrio tra il passato e il futuro. Il coraggio di evolverci richiede non solo di guardare avanti, ma anche di recuperare ciò che di più profondo e autentico abbiamo dentro di noi, proprio come facevano le donne della Resistenza: attingere dalle proprie radici per costruire nuove possibilità, con la consapevolezza che la vera forza risiede nell'accettazione della vulnerabilità e nella capacità di trasformarla in azione.
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