“Il compito della filologia, cioè dello studio scientifico del mondo antico è di far rivivere con la forza della scienza quella vita scomparsa: il canto del poeta, il pensiero del filosofo e del legislatore, la santità del tempio, i sentimenti dei credenti e dei non credenti, le molteplici attività del mercato e del porto per terra e per mare, gli uomini intenti al lavoro e al gioco. Come ogni scienza, come in ogni filosofia, per dirla alla greca, anche qui si comincia con lo stupore che suscita ciò che non si comprende. Lo scopo è di arrivare alla comprensione.” (Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff) I Greci ci hanno lasciato un’eredità formidabile: la capacità di interrogare il reale senza cedere alla tentazione delle risposte facili. Nelle loro pratiche culturali, nei miti e nelle scuole di pensiero, troviamo una straordinaria attitudine alla ricategorizzazione del senso, una sfida al nostro bisogno di certezze. Nel corso di un’intervista realizzata per lo Studio Pancallo sui temi centrali affrontati in questo capitolo, Andrea Marcolongo ha affermato: “Abitiamo tutti la stessa tela.” Una metafora che richiama la possibilità di riconoscere il legame profondo tra esseri umani attraverso il tempo: una trama condivisa che può essere tradotta, ossia rielaborata interiormente per dare nuovo significato all’esperienza. In questo senso, la traduzione va intesa non solo come passaggio tra lingue, ma come trasformazione viva di ciò che ci ha preceduti. È un atto psicofisico che mobilita il bilancio corporeo, affina la sensibilità emotiva e ristruttura la percezione. Tradurre è dunque una pratica della coscienza: restituisce presenza a ciò che era silente, rinnova il contatto con i simboli e rende il passato accessibile al sentire del presente. “Ciò che è umano è vissuto completamente soltanto da tutti gli uomini nel loro insieme.” (José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione) La mitologia diventa così il più grande lascito dei Greci: non un repertorio di racconti, ma un sistema di connessioni profonde. Come scrive Joseph Campbell, i simboli mitologici non trasmettono solo idee, ma una partecipazione viva al senso dell’infinito, dell’abbondanza, della trascendenza. Ogni mito è un’epifania del mondo e dell’anima. “Il compito essenziale di una mitologia è aprire le menti e i cuori all’assoluta meraviglia di ciò che esiste.” (J. Campbell, Le distese interiori del cosmo) Il mito di Medusa, con la sua forza perturbante e trasformativa, invita a riconoscere e integrare le parti oscure del nostro essere. Rende visibile un principio fondativo: non c’è evoluzione senza attraversamento del disagio. Riflessione e presenza diventano le armi interiori dell’eroe, che associa ciò che ha dentro con ciò che lo attende fuori, traducendo l’esperienza in un’azione consapevole. Non è un caso che le scuole pitagoriche della Magna Grecia — a Crotone, Taranto, Metaponto — praticassero forme di concentrazione che riecheggiano metodi contemporanei: respirazione diaframmatica, silenzio rituale, incubazione in grotte o spazi sotterranei consacrati al raccoglimento. L’anámnesis, la rammemorazione profonda, anticipa un’esperienza che oggi potremmo accostare all’endofasia: un dialogo interiore che ci parla del passato, ci aiuta a immaginare il futuro e ci guida nella soluzione dei conflitti. “L’inconscio personale […] corrisponde alla figura, variamente presente nei sogni, dell’Ombra.” (C.G. Jung, Opere, vol. VII) Per Jung, l’integrazione dell’Ombra è il presupposto per una personalità equilibrata. Ed è proprio questo il punto cardine del discorso: riconciliare la parte chiara con quella oscura, integrare ciò che è stato rimosso per costruire una visione di sé stabile e autentica. È un gesto che appartiene al mito tanto quanto alla psiche: una forma di traduzione interiore capace di restituirci alla nostra integrità. La conoscenza mitica, incarnata in figure come Medusa o Perseo, ci offre immagini capaci di agire su di noi. Non metafore vuote, ma visioni vive, dotate di forza generativa. Perseo non affronta solo un mostro, ma una dimensione del sé. La sua vittoria non è senza costi: include dubbi, conflitti interni, tensioni irrisolte con il passato, come il rapporto con il nonno Acrisio. Chi è Perseo se non un uomo diviso tra il desiderio di affermare la propria visione e il bisogno di dare spazio alla propria umanità? Chi siamo noi, se non esseri attraversati da queste stesse tensioni? Una convinzione maturata nell’esperienza è che le immagini abbiano una forza superiore alle spiegazioni. Quelle mitiche, in particolare, sono come cornucopie inesauribili: portano fertilità al nostro pensiero e alla nostra interiorità. Se non avessimo percepito il mistero dell’invisibile, potremmo mai parlare di riconciliazione? E infine: una mitologia viva ci offre un'immagine del tempo dove sapere, emozione e azione si intrecciano. Il mito guida, suggerisce, orienta — non solo il nostro passato, ma anche il modo in cui viviamo oggi. È uno specchio che riflette i legami tra mondo interno ed esterno, tra l’intimo e il collettivo. “La realizzazione di ciò che è in noi allo stato potenziale. La sua ricerca non è una gita dell’Io; è un avventura portare a compimento quel dono al mondo che noi stessi siamo. Non c’è niente di più importante che si possa fare se non realizzarsi. Allora si diventa un segno, un segnale; si diventa trasparenti alla trascendenza; in questo modo ci si ritrova, vivi, e si realizza il proprio mito personale.” (J. Campbell, Percorsi di Felicità, ed. Raffaello Cortina, MI 2012, p. 123 In definitiva, il mito di Perseo e Medusa ci ricorda che ogni passaggio esistenziale, per essere autentico, deve includere un’azione di riconciliazione: non con l’esterno, ma con ciò che di noi abbiamo escluso — la nostra Ombra. Solo accogliendo le parti negate, attraversando ciò che fa paura e integrando le nostre contraddizioni, possiamo restituire coerenza alla nostra storia. È in questo gesto profondo che si accende quel fervore interiore capace di renderci, finalmente, vivi.
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