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Riflessioni sulla cura come atto sartoriale dell’anima Qualche giorno fa, sulle pagine di Robinson (12 ottobre 2025), Vivian Lamarque raccontava la propria esperienza di rinascita poetica e terapeutica, ospite della Settimana della Salute Mentale (màt) a Modena. Nel suo articolo, dal titolo “Facciamoci tendere la mano senza paura”, la poetessa intreccia poesia e psicoanalisi in un gesto semplice e profondo: la mano che si tende verso l’altro, senza difese. Scrive Lamarque che “la poesia mi ha salvata quanto, e forse più, dell’analisi”. È un’affermazione che commuove, perché riporta la cura al suo gesto originario: un movimento di fiducia, una disponibilità a lasciarsi toccare e trasformare. La mano tesa diventa così la forma visibile di ciò che, in terapia, accade spesso in silenzio: l’incontro tra due fragilità che, riconoscendosi, generano forza. In questo dialogo ideale, la mano di Lamarque e il passo che porto in queste riflessioni appartengono alla stessa grammatica del prendersi cura. Entrambi parlano di un avanzare possibile, fatto non di conquista ma di continuità: un modo di restare vivi nella relazione, di procedere dentro la propria verità con delicatezza, senza paura. Il passo che resiste C’è un momento, nelle storie di cura, in cui non è più necessario guardare in volto chi è cambiato. Basta un dettaglio — un orlo, una stoffa, la qualità del passo — e tutto parla. In un sogno che sa di rito collettivo, una figura femminile attraversa la piazza della trasformazione sotto un lungo baldacchino arabescato, fragile come cartone eppure sorprendentemente capace di proteggerla dalla pioggia. Non serve vederne il volto: la riconosciamo dalla stoffa dell’abito. Indossa una gonna a ruota in movimento, rifinita in cady di seta, e un paio di décolleté bianchi con tacco a rocchetto: femminili, stabili, fatti per durare. È in questi dettagli simbolici che si svela la potenza di una trasformazione: non l’apparenza del cambiamento, ma la stoffa che permette di procedere nella realtà. Ogni chiusura, in un percorso di cura, non è mai un punto fisso, ma una trasformazione ciclica, un riposizionamento dell’essere capace di assumere molte forme possibili. Proprio l’opposto dell’attitudine narcisistica, dove ci si sente adeguati solo rimuovendo le figure di riferimento — in un’eterna danza adolescenziale di indipendenza urlata, ma non realmente conquistata. Nella cura autentica, invece, si impara che separarsi non significa espellere, né negare chi ci ha accompagnati, ma portare dentro di sé l’esperienza maturata come un abito nuovo: cucito su misura, elegante e funzionale, pronto per essere indossato in altri passaggi della vita. La guarigione smette allora di essere un trofeo o un’immagine da mostrare. Diventa compito di continuità, strumento interno, cassetta invisibile degli attrezzi da cui attingere ogni volta che la vita chiederà un nuovo passo. E proprio in quel passo — non perfetto, ma resistente, coerente, possibile — si compie il segreto più profondo del prendersi cura. La mano che si tende, il passo che avanza Come scrive Vivian Lamarque: “Facciamoci tendere la mano senza paura.” C’è nella mano che si tende lo stesso movimento del passo che avanza: un atto di fiducia che rompe la solitudine, che accetta di essere toccato e di toccare. La cura autentica nasce da questo gesto elementare — la disponibilità a ricevere e a offrire contatto. La poesia, dice Lamarque, può curare quanto la psicoanalisi, perché entrambe insegnano a trasformare la ferita in parola, la paura in relazione. È un’arte sottile, sartoriale anch’essa: ogni verso come un punto di cucitura invisibile tra mondo interno e mondo esterno. Così il passo che resiste e la mano che si tende diventano due movimenti dello stesso atto terapeutico: avanzare verso l’altro senza perdersi, restare fedeli alla propria forma ma aperti al contatto. È in questo spazio — tra la stoffa e la pelle, tra il silenzio e la parola, tra l’andare e il venire da stati d’animo, da incontri, da prove affrontate, da torri crollate e lentamente ricostruite — che la cura si fa arte e la guarigione trova il suo ritmo umano. Post Scriptum — la voce che resta Come ha scritto e testimoniato Mario Trevi in più luoghi, la psicoterapia non guarisce nel senso medico del termine, ma nel senso poetico: è un lavoro che restituisce la parola al silenzio dell’essere. (Cfr. Mario Trevi, Il lavoro psicoterapeutico. Limiti e controversie, Theoria, 1993; intervista in Antonio Gnoli, “Mario Trevi: Da Jung a Fellini, amo le zone d’ombra”, la Repubblica, 29 giugno 2010). Ed è forse qui che tutto si ricompone: nella mano che si tende, nel passo che resiste, nella parola che resta. Tre gesti di una stessa continuità, che ci insegnano a non avere paura del contatto, della trasformazione, della presenza viva dell’altro dentro di noi. Testo a cura della Dott.ssa Anna Pancallo Riferimenti bibliografici
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