L’ansia da performance colpisce spesso individui abituati a elevate prestazioni. Secondo uno studio pubblicato nel 2023, Imposter Phenomenon di M.R. Huecker et al., tale sindrome ha una particolare rilevanza in coloro che lavorano in campo sanitario e, in generale, negli accademici o in individui che occupano alti profili professionali. Il ciclo psicologico di tale disagio è contraddistinto da alcuni aspetti: perfezionismo, supereroismo, atichifobia (paura del fallimento), negazione della competenza e xenofobia del raggiungimento. Ne consegue che, quando viene loro affidato un incarico, le modalità di reazione sono prevalentemente di due tipi:
Questo fenomeno è stato riconosciuto per la prima volta nel 1978 da due psicologhe, R. Imes e P.R. Clance. I meccanismi odierni ci portano a parlare di fenomeno dell’impostore proprio per indicarne la diffusione in svariati settori sociali. Se parlando di sindrome risultano necessari approfondimenti individuali, spesso legati a uno o più dei punti sopra menzionati, il fenomeno dell’impostore può invece verificarsi in una quantità molto maggiore di individui. Alla base vi è un senso di insicurezza e una scarsa autostima. Risulta dunque importante valutare il ruolo giocato dall’ambiente in tale direzione: ad esempio, in che modo una società che tende a vedere il benessere fortemente connesso a una scalata verso il successo può condizionare la vita degli individui? In un contesto iperconnesso, dove l’esposizione costante attraverso i social media alimenta il confronto continuo e spesso idealizzato, è facile che l’autenticità ceda il passo alla prestazione, e il valore personale venga misurato in termini di visibilità, approvazione e risultati. Una delle principali esperte di questo disagio è la dott.ssa Valerie Young, che ha creato un istituto dove affronta questa tematica, insegnando come gestirla. La dottoressa sembra accreditare la tesi secondo cui moltissime persone che presentano questo tipo di vissuto hanno in comune il sentimento della vergogna. Questo aspetto non sorprende, se consideriamo che la forza lavoro sociale trova la sua massima espressione nella personalità dell’individuo, piuttosto che nella forza fisica o nell’intelligenza. Ciò richiede di risultare attraenti sempre e comunque, a scapito di sentimenti come la vergogna, che si manifestano in rapporto a un senso di inadeguatezza. “Quando un’attività lavorativa è costituita da una serie di movimenti automatici e poco altro, e quando i costumi sociali, in passato elevati a rituale, degenerano nell’interpretazione di un ruolo, il lavoratore – che si affatichi alla catena di montaggio o tuteli il suo posto superpagato in una grande burocrazia – cerca di sottrarsi al senso di mancata autenticità che ne deriva stabilendo un distacco ironico dalla routine quotidiana.” (C. Lasch, “La Cultura del Narcisismo”) Ed è proprio tale adattamento alla routine a smorzare la voglia di cambiare. Possiamo quindi riconoscere come l’ansia da prestazione risulti un atteggiamento volto a mascherare un fenomeno maggiormente complesso, che ci riporta a un abituale distacco da ciò che si prova. Uno degli aspetti maggiormente riscontrati in psicoterapia è la consapevolezza che diviene giudice della consapevolezza medesima. Per affrontare tale meccanismo è importantissimo rifarsi a una corretta visione dei propri limiti, dando spazio a quelle aree della personalità che hanno poca possibilità di crescere in una cultura che tende a spostare ai margini del gioco tutto ciò che distoglie dal ruolo “adeguato”. Come già ebbe a dire C.G. Jung: “È la nostra parte fragile che ci salva”.
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