Al giorno d’oggi, la ricerca di un’eco responsiva nel mondo, di un “adattamento”, di una reazione, nasconde molte insidie e, l’immagine dell’incontro tra Perseo e Andromeda, ci propone di ripensare alle modalità con le quali possiamo affrontare tale sfida riportandoci prepotentemente ai temi del riconoscimento, dello scambio amoroso e dell’intimità, ma anche al tentativo, attraverso quel tipo di esperienza consumata nel mito, di evolvere la storia familiare. La vicinanza con un altro individuo risulta connessa a uno sguardo sul mondo, alla capacità di prendersi cura delle persone come delle cose. La mancanza di questo tipo di attenzione coinvolge un certo disamore per ciò che ci sta attorno e per quello che riesce a coinvolgerci. Una sorta di deserto dello spirito che porta fuori da se stessi e, che in qualche misura, si collega alla difficoltà di dare valore al passato. Per provare un sentimento è necessario articolare il presente secondo la tripartizione che suggerisce S. Agostino: il presente del presente (qui e ora), il presente del passato (la memoria), il presente del futuro (gli obiettivi e le sfide). In quest’ottica agostiniana, vediamo che l’idea di futuro, per poter risultare soddisfacente, non è caratterizzata solo dalla prospettiva del raggiungimento di qualcosa, ma piuttosto da un’azione che deve poter racchiudere in sé anche ciò che proviene dal nostro passato e dal modo in cui stiamo vivendo il presente. Il presente della nostra contemporaneità, invece, si consuma nell’immediatezza che si dilata a dismisura, aspetto che rende difficile convogliare ulteriori esigenze, che derivano dalla nostra storia personale e ci portiamo, inesorabilmente, dentro. È importantissimo comprendere che le difficoltà relazionali che viviamo sono frutto di modalità odierne divenute consuete, e che nel loro incidere hanno spostato dei punti di equilibrio a favore di un modus che tende, in forma continuativa, a estroflettere le nostre istanze interiori reali, per dare un significato a ciò che gli individui vogliono solo attraverso il riconoscimento esterno. Uno psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, ha coniato al riguardo un termine molto efficace, definendo il nostro tempo come “l’epoca delle passioni tristi”. Un tempo in cui se, da una parte, viene costantemente richiesto un argine alla propria tristezza, dall’altra non si riesce a dare un valore all’autorità interna, intesa come capacità di gestire i propri limiti come modo per rapportarsi alla realtà. Ne consegue un aumento dell’aggressività poiché, laddove non c’è il senso del limite, la nostra distruttività irrompe. “Ma forse, in una cultura come la nostra, più sensibile ai rapporti di forza che a quelli di sostegno, il nostro cuore si è fatto duro e si è persa la fiducia nel carattere terapeutico che la comunicazione e la relazione sociale possiedono, come ognuno di noi può verificare quando sta male.” (U. Galimberti, D di Repubblica, 4 Settembre 2021) Si fa fatica a pensare di essersi induriti, come dice il filosofo Galimberti, ma per riprendere la realtà delle ragioni del cuore è necessario diventare esperti di quello che si prova, per nutrirsi di scambi umani dove sia possibile non solo gioire assieme, ma anche soffrire, senza per questo avvertire un senso di minaccia. Questo tipo di allenamento ci riconduce a una pratica della coerenza spesso sottovalutata perché comporta entrare in una sorta di confusione circa ciò che desideriamo veramente. La coerenza scaturisce da un processo interiore piuttosto profondo, frutto non di una disposizione caratteriale, ma dell’aver raggiunto la vetta più alta di un cammino interiore grazie all’accordo tra mente emotiva e razionale, percezione soggettiva e pensiero. Realizzare il proprio destino piuttosto che lasciarlo schiacciare dalla fragilità comporta una lunga pratica di legami, dove il sapere passa attraverso un’esperienza dello scambio, e dove i rapporti devono essere vissuti attraverso una reciprocità elettiva, piuttosto che come elemento utilitaristico. Questo comporta conversare con il nostro cuore, come se fosse un buon amico, per ascoltare ciò che lo attanaglia e ciò che lo fa sentire libero. Nella realtà esiste una certa dose di cinismo circa l’amore, riteniamo possa essere introvabile e per questo ne stiamo alla larga. “Il cinismo è l’ultima spiaggia dei romantici”, usava dire un conoscente; quello è lo spazio dove si rifugiano tutti coloro i quali, vivendo una cocente disillusione, non osano rialzare il capo e lo sguardo verso l’altro. La vergogna porta a raggomitolarsi su se stessi: impotenti, impauriti e sconfitti per non essere riusciti a trovare nessuno. Una delle opinioni più frequenti, che si colgono quando una persona non ha un legame, è che questo individuo stia cercando di trovare qualcuno per non rimanere da solo. Molto meno si ha la propensione a pensare al bisogno, insito in ognuno, di dare un valore ai propri sentimenti attraverso un riconoscimento reciproco, ma abbiamo paura a parlarne, perché pensiamo che il confronto su questo aspetto ci confonde ulteriormente, rendendoci più vulnerabili. Inoltre, si parla d’amore in termini idealizzati, mentre attorno siamo circondati dai guasti dell’amore che infondono in noi molti dubbi. Questa tendenza è frutto di un apprendimento del sentimento che, fin da piccoli, siamo abituati a far passare attraverso la mente razionale piuttosto che attraverso il riconoscimento delle percezioni emotive, cosicché nel corso dello sviluppo, ci sembra naturale considerare l’amore come un’operazione alquanto minacciosa e dalla quale cercare riparo su un’isola protetta dove sentirsi al sicuro. La perdita di speranza è proprio ciò che innesca la tristezza di fondo che accompagna il vissuto di molte persone. Ma un fatto sul quale vale la pena riflettere è come gli individui un po’ più avanti con gli anni, quando incontrano un partner con il quale costruiscono una relazione soddisfacente, è perché sono stati capaci di dare spazio all’imperfezione e sono in grado di costruire una relazione dov’è possibile nutrirsi reciprocamente dei vissuti, anche difficili, creando un “luogo” in cui, ad ognuno di questi vissuti, viene data una connotazione evolutiva e di crescita. Sono coppie che sono riuscite ad aggirare gli ostacoli sociali rappresentati dalla visione irreale del sentimento, come nel caso del raggiungimento del successo, considerato importante perché in grado d’ingrandire il nostro ego agli occhi degli altri, perseguendo, invece, i loro obiettivi attraverso una maturazione interna, che presuppone un criterio evolutivo. Parimenti alla difficoltà di coinvolgimento dei sentimenti fa da contraltare un’ossessione sessuale dilagante, dove è la sessualità stessa ad uscirne perdente poiché il corpo, con i propri bisogni, attraverso i quali si manifestano aspetti profondissimi dell’essere, risulta essere relegato alla mera funzione di oggetto. Un esempio è dato dalla grande difficoltà a distinguere l’autoerotismo dalla pratica masturbatoria, le due cose sono quasi sempre associate nella mente dei soggetti. Invece, basta leggere alcune pagine del bellissimo romanzo di David Herbert Lawrence, “L’Amante di Lady Chatterley”, per comprendere che si comunica attraverso il corpo ciò che sta dentro. La protagonista del libro si chiama Connie e trova l’amore passando attraverso la sessualità, è questa esperienza che la porta a potersi accorgere del proprio bisogno interiore. “Quando l'anima emotiva riceve un colpo violento, che non uccide il corpo, l'anima sembra guarire insieme al corpo. Ma è solo apparenza. Si tratta solo del meccanismo dell'abitudine, che riprende a funzionare. Lentamente, lentamente la ferita dell'anima comincia a farsi sentire, come un'abrasione che solo con lentezza spande il suo dolore lancinante, finché non riempie tutta la psiche. E quando cominciamo a credere di essere guariti e avere dimenticato, proprio allora si va incontro alle terribili ripercussioni.” (D. H. Lawrence, L’Amante di Lady Chatterley) Potremmo dunque considerare che il bisogno sfrenato di sessualità possa essere correlato alla contemporanea difficoltà di guarire dalle ferite, di operare uno scambio con il passato in grado di portare al riconoscimento, nel presente, delle nostre esigenze sentimentali racchiuse nel solco della propria storia personale. Pensiamo che amare necessiti soprattutto di istinto, mentre invece è un atto di volontà che si traduce attraverso i gesti, gli sguardi, le parole, il nostro sentire profondo. Una prova di maturazione che coinvolge l’incontro intimo e potente con il diverso da sé perché in grado di tollerare la paura di perdersi. “L’amore è ciò che sfuma le differenze – o meglio ciò che le rende potenti: consente di fare esperienza di ciò che noi stessi non possiamo sperimentare.” (M. Benasayang, Funzionare o esistere?, Vita è Pensiero, 2019) “Per amare davvero dobbiamo imparare a mettere insieme vari elementi: cura, affetto, riconoscimento, rispetto, impegno e fiducia, oltre a una comunicazione onesta e aperta.” (Bell Hooks, Tutto sull’amore, Il Saggiatore, 2022) Dare e ricevere amore porta in primo piano la storia familiare, il tipo di accudimento che si è ricevuto da piccoli e che a sua volta fa parte di un modello di riferimento ereditario. Ci sono famiglie che confondono l’amore, con il prendersi cura, che è pur sempre una dimensione dell’amore, ma non è tutto l’amore nella sua totalità. Oppure, quando si è stati maltrattati da piccoli, si tendono a scegliere persone da adulti che fanno lo stesso perché non si riesce ad accettare che è nei bisogni primari che l’amore è mancato. E non è dicendoci che ci hanno amati come potevano che si scioglie il nodo, quanto accettando senza vergogna, che in quella dimensione familiare esisteva una carenza d’amore che illanguidiva l’anima. Per andare verso l’amore risulta necessario modificare questi modelli di riferimento. C’è un’altra bellissima frase di Lawrence al riguardo, sempre nel libro citato sopra: “Coloro che vanno cercando l’amore, manifestano solo la loro mancanza di amore. E la persona senza amore non trova mai l'amore, solo gli innamorati trovano l’amore. E non devono mai cercarlo”. Essere innamorati della propria anima, compiere azioni nella direzione di poterla sostenere, è il passaggio attraverso il quale la ferita si trasforma in feritoia, l’arte del lasciar passare l’esperienza emotiva quando ci si sente intimamente fragili e vulnerabili. Il processo avviene per tentativi e blocchi, si alternano disagi, speranze, entusiasmi ed angosce, finché il proprio slancio vitale si libera per riconoscersi in qualcuno. “Io sono Perseo”, disse. “Io sono Andromeda”, rispose. Parole semplici per definire quell’energia prorompente che riconosce nell’altro qualcuno da tenere vicino. Come ci suggerisce lo scrittore professore Alessandro d’Avenia, è nel lavorare sul ritorno a casa che acquisiamo quegli strumenti necessari all’amore, lui parla del viaggio di Ulisse che torna a Penelope, ma in fondo è il medesimo di Perseo. Nel ritornare si trova ciò che serve a definirsi diversamente, assieme all’altro. “Il principio di animazione” (anima, dal greco ànemos, “soffio”) dell’esistenza umana è il respiro, quello di azione è il desiderio (da de-sidera, “distanza dalle stelle”, mancanza, chiamata, vocazione). Nessuno può saperlo meglio di un naufrago che cerca aria e terra per non annegare e si orienta per mare con le stelle. Ulisse è il naufrago e l’esule che ce lo racconta meglio di chiunque altro, e ci riconosciamo in lui perché anche noi, senza ammetterlo, ci percepiamo come esuli: la paura dell’abbandono, della solitudine, del nulla, dell’anonimato sono tutte caratteristiche dell’esule, che per questo è costretto a fare terra dentro di sé, prima di trovarla fuori. Da qui nasce la struttura del poema come viaggio di solo “ritorno”. (A. D’Avenia, Resisti Cuore, Mondadori, 2023) Per i greci diventare eroi voleva dire accettare la propria storia e saperla padroneggiare, imparare a fare delle scelte, non soccombere agli aspetti difficili del destino. Perseo e Andromeda sono eroi perché lottano anche nei momenti in cui tutto sembra essere molto difficile, praticano l’accettazione, quando si trovano davanti alle prove ardue che presuppongono lo stare nell’ignoto, con saggezza e fiducia. Così Perseo è salvato da Atena che gli infonde fiducia attraverso gli strumenti magici, a sua volta, lui salva Andromeda perché salvare, non è soltanto sottrarre qualcuno da un pericolo, ma è celebrare assieme il non essersi perso nelle insidie del divenire. Coloro che non si perdono sono quelli che tornano, come ci fa notare D’Avenia nel tratteggiare la parabola di Ulisse. E ancora, risulta molto espressivo ciò che sempre questo autore sottolinea a proposito del legame tra Ulisse e Penelope: “Due eroi della resistenza nell’assenza: Ulisse di Itaca, Penelope di Ulisse. Eroi del vuoto. Quel vuoto che è tra i più dolorosi dell’esistenza: non credo di aver mai sofferto tanto come nei “vuoti”, nelle assenze che la vita mi ha rifilato. Il vuoto di un amore che inspiegabilmente viene interrotto proprio all’inizio del suo fiorire. Se ci sono state notti insonni, respiro affannato, desiderio spento, è stato per questo. Chi ha subito un abbandono di questo tipo conosce il dolore di cui sto parlando, il dolore che ti mette di fronte all’abisso del non esistere perché l’amore è l’unica forza capace di vincere la paura di non essere. L’amore è il principio umano di individuazione che ci consente di incarnare un destino, senza amore rimaniamo sospesi nel vuoto. Penelope si trova in questa condizione da vent’anni: il vuoto lasciato da Ulisse, che lei deve riempire di un’incerta attesa che però sa trasformare in azione e invenzione. Tornerà? L’amore tornerà?” (A. D’Avenia, op. cit. p. 104) Così è anche per Perseo e Andromeda. Sì!, l’amore torna quando è più comprensibile per noi il significato di reazioni che provengono da un passato lontano, un tornare, attraverso questo processo, per aprirsi a qualcosa che nel venirci incontro si svela e ci definisce. La disciplina e la pratica sono fondamentali per poter andare in tale direzione. L’influenza del pensiero dello psichiatra Scott Peck, grazie al suo libro “Voglia di bene”, letto almeno trent’anni fa, ha illuminato più di qualche giovane psicologo circa il percorso da intraprendere per potersi riconoscere nell’altro: «Profondo o meno, l’impegno è il fondamento, la base di qualsiasi rapporto d’amore autentico. Un impegno profondo non garantisce il successo del rapporto, ma vi contribuisce più di qualsiasi altro fattore. […] Chiunque sia sinceramente interessato alla crescita spirituale dell’altro sa, per via di ragionamento o per istinto, di potervi contribuire in misura significativa solo attraverso un impegno costante». (M. Scott Peck, Voglia di bene, Frassinelli, 1985) Il fatto di vivere in una cultura che c’insegna sempre a liberarci di qualcosa, ci fornisce la risposta al perché l’amore si allontana. Lottare per riporre emotivamente fiducia nelle persone che sono amicizie fedeli, è un passo verso il tornare a casa. Lo squarcio che apre la vista verso l’orizzonte potendo abbandonare la paura. “Non abbiamo una nicchia in cui ritirarci, siamo su una zattera dentro un oceano. Possiamo abbracciarci, tremare un poco assieme, parlare di questo nostro poco riconoscerci, di questo non saperci abbracciare e tremare un poco assieme.” (F. Arminio, Per tornare assieme alla casa del mondo, Anima Mundi, 2018)
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