Come ogni anno il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria. Un momento per poter riflettere sul dramma dell’Olocausto e le profonde ripercussioni in seno alla società civile dalla metà del novecento fino ad arrivare ai nostri giorni È interessante sottolineare come oggi il tema possa essere affrontato con quella giusta distanza che prima non era consentita. Quando si vivono situazioni così drammatiche la psiche, tanto quella dei traumatizzati, quanto del resto della società, ha bisogno di un arco temporale ampio al fine di riuscire a cogliere elementi profondi che possano portare ad un riconoscimento più completo circa gli accadimenti: il tempo giusto potrebbe essere proprio l’oggi. La senatrice Liliana Segre ha ben espresso questo concetto quando si riferisce al bisogno che ha avuto per molti anni, quando era ritornata ad una vita normale, di non pensare a tutto quello che le era accaduto, di concentrarsi sul presente per scegliere la vita. Ma il bisogno di testimoniare emerge prorompente, così da voler costruire un luogo interiore capace di rielaborare più e più volte l’angoscia e la paura di quell’orrore. E allora diviene più urgente la necessità di condividere poiché, attraverso la trasmissione, e la funzione educativa di tale azione, la psiche trova un suo perché a ciò che non poteva essere accettato. Ci vuole un intervallo temporale sufficiente per dare un volto all’esperienza della distruzione ed a ciò che mette in atto dentro ad ognuno. Non a caso, subito dopo la guerra, i film che trattavano il tema erano piuttosto edulcorati; lo stesso “Schindler List”, che diede una riflessione più realistica di quanto accaduto, oggi ci appare come un prodotto di un tempo lontano dove la parte cruda della realtà conseguente l’Olocausto viene rappresentata e somministrata in modo parziale, soprattutto in base a ciò che lo spettatore di allora poteva essere in grado di tollerare. Negli ultimi venti anni tra cinematografia e letteratura si procede in una direzione diversa, ossia quella di dare voce alla storia in modo più realistico, così che le produzioni per il pubblico partono da una lettura/ricostruzione basata su documenti e sull’elaborazione personale dei racconti. All’interno di questo nuovo scenario colpisce cogliere la natura eroica di molti comuni cittadini che, in circostanze drammatiche, dettero fondo ad un coraggio eccezionale verso il quale noi tutti siamo per sempre debitori. Un’indagine approfondita sulla vita di un agente segreto del governo britannico si trova nel libro “La Spia che Amava” di Clare Mulley, edito da 21 lettere. Il testo ci parla della vita di Cristine Granville, uno degli agenti donna facenti parte del SOE (Special Operations Executive), un’organizzazione segreta dotata di spie particolarmente addestrate che si muovevano tra Londra, il Cairo, Algeri, Brindisi e Bari. La storia di Christine Granville è una di quelle vicende cui solo il passare degli anni può dare il giusto peso per più motivi: era un agente segreto, era una donna, era capace di prestarsi a missioni pericolosissime in modo quasi disinvolto. Il libro è una testimonianza preziosa poiché è frutto di uno studio accurato sui documenti conservati al National Archive in Gran Bretagna, come in altre Istituzioni, e resi pubblici negli ultimi anni. Inoltre, il desiderio di chi la conobbe di trasmetterne la memoria, ha fatto si che la storia di questa donna dal coraggio eccezionale potesse emergere dall’oblio. Il libro narrando le vicende di Cristine si muove su due piani, da una parte rievoca gli eventi, dall’altra articola in modo avvincente la trasformazione umana della protagonista. Di come una donna dell’alta società polacca, votata al destino di buona moglie, possa aver avuto una metamorfosi così sorprendente divenendo una persona risoluta, indipendente e in grado di sviluppare una forza d’animo straordinaria. Cristine entra a far parte del SOE nel 1940 e fu reclutata per operazioni segrete ad Istanbul; doveva controllare le rotte delle staffette attive che dovevano entrare nella Polonia occupata. Inoltre molti profughi polacchi passavano per Istanbul e le loro preziose informazioni richiedevano d’essere ordinate così da organizzare al meglio la resistenza in Polonia. In Turchia gli agenti segreti del SOE erano comunque controllati dalla polizia turca e Cristine incontrava i suoi contatti nelle piazze delle moschee o nei numerosi bar sulle rive del Bosforo, non era possibile organizzare riunioni tra gli agenti segreti. Oltre questa oggettiva difficoltà Cristine Granville si trovò a dover fronteggiare tutta una serie di sospetti nei sui confronti, sia tra i servizi segreti polacchi che tra quelli britannici, che coinvolsero il suo operato e, se il SOE da una parte non aveva molti dubbi sulla sua lealtà, dall’altra non voleva mettere in crisi il suo rapporto con i servizi segreti polacchi. Così, pur avendo rischiato la vita più volte dall’inizio della guerra in Polonia, Cristine era a rischio nell’essere considerata una doppiogiochista dalla parte dei nazisti. L’attacco aereo giapponese alla base navale di Pearl Harbour, e la conseguente entrata in guerra anche della Gran Bretagna per difendere i confini della Polonia, rimisero la situazione su un piano di verità rispetto al rischio di venire accusata di alto tradimento. Dopo essere stata utilizzata dal SOE come informatrice attraverso l’alfabeto morse, Cristine Granville, alla fine del 1944, aveva ricevuto una formazione sugli esplosivi elementari e intrapreso un corso presso il SIS (Secret Intelligence Service) sulle armi da fuoco, in particolare sul come maneggiare la pistola e sull’arma prediletta dal SOE, il fucile automatico Sten. Cristine di fondo odiava le armi da fuoco ma questo non le impedì di acquisire una tecnica brillante. Perfezionò anche l’uso delle armi bianche e del combattimento a mani nude. Imparò a maneggiare il pugnale - una lama d’acciaio a doppio taglio della misura di diciotto centimetri - il cappio e come destreggiarsi nel combattimento corpo a corpo - un misto di karatè e jujitsu di derivazione giapponese. Il motto scritto sul manuale con il quale il SOE addestrava i propri agenti era: “Questa è guerra, non sport”. Apprese naturalmente anche l’arte dello spionaggio che spaziava dai semplici travestimenti personali come cambiarsi i capelli, infilare tappi in bocca per alterare la forma del viso, fino alla sorveglianza nascosta. Venne addestrata a organizzare terreni per il lancio di armi ed esplosivi oltre che a sopravvivere agli estenuanti interrogatori della polizia o della Gestapo, il cui scopo era di fiaccare sempre la resistenza di chiunque venisse arrestato affinché facesse i nomi dei propri complici. Le venne spiegato che era necessario resistere almeno quarantotto ore per dare modo agli altri di fuggire. Tutti questi aspetti richiedevano una determinazione e un controllo notevoli. Cristine era dunque una donna addestrata, come e più di un soldato, anche se la sua arma vincente rimaneva la capacità di persuasione, aspetto che richiedeva senza dubbio una fiducia in se stessi piuttosto elevata. Nell’Ottobre del 1942 Hitler ordinò che “tutte le truppe di sabotaggio dovevano essere sterminate senza eccezioni ... le possibilità che ne escano vivi sono nulle…”. Una delle imprese della nostra protagonista più straordinarie fu quella di recarsi direttamente negli uffici della Gestapo, pur essendo a conoscenza di una taglia sulla sua testa, a parlare dell’arresto di tre suoi amici, che in realtà erano ai vertici del SOE, in missione nella Francia occupata. Per giustificare il suo interesse si finse moglie di uno dei tre, riuscì a terrorizzare uno dei capi con le storie degli alleati che stavano avanzando, costui chiese un riscatto di due milioni di franchi francesi e lei rispose freddamente che glieli avrebbe consegnati personalmente ma che se avesse rinnegato l’accordo gli avrebbe sparato personalmente. L’impresa per quanto ardua riuscì e il Generale Stawell quando le conferì il premio al suo valore citò i suoi “nervi saldi, la freddezza e la dedizione al dovere, insieme al grande coraggio… devono essere certamente considerati come le più notevoli imprese personali della guerra” (General Stawell, “Citation in respect of Miss Mary Cristine Granville,10-12-1944”). Leggendo queste parole viene da pensare ad un lavoro di Nechama Tec che si conclude con questa osservazione: “Se non fosse stato per l’Olocausto, la maggior parte delle persone che prestarono aiuto alle vittime avrebbe forse continuato per la propria strada, alcune compiendo opere di carità, altre conducendo una vita semplice e riservata. Si trattava di eroi potenziali, spesso indistinguibili da coloro che li circondavano.” (N.T., “When Light Pierced the Darkness”, Oxford University Press,1986, p.193) Questa frase invita ad una riflessione sul coraggio, come spinta data da un desiderio profondo, così da poter affermare che l’eroe è colui che fa del proprio desiderio un azione finalizzata a qualcosa d’importante per se stesso. L’umiliazione che Cristine da polacca aveva subito nel vedere la propria patria trasformarsi nel teatro dei crimini più violenti ai danni di un popolo, aveva alimentato il suo desiderio fino a farla divenire portatrice di una missione per poter vedere di nuovo libero il suo paese. Il lavoro al servizio del SOE fu sicuramente svolto con gli strumenti “crudi” di una guerra in atto, ma c’era dietro un conflitto di proporzioni ancora più ampie: la lotta per affermare che la pietà istintiva verso altri esseri umani sofferenti non doveva essere soffocata. Salvaguardare a prezzo della propria vita questa visione non era impresa facile. Il nazismo tendeva a spegnere lo zelo individuale a favore dell’organizzazione e della fede ideologica, tutto il contrario di ciò che ha animato la vita della nostra protagonista e con lei di altri eroi. C’è un episodio, citato nel libro, che sembra rappresentare un canto individuale alle risorse di ognuno in nome di un credo in ciò che l’uomo è in grado di dare. Cristine Granville si trova in Francia, raggiunge gli alleati americani a Sisteron che le comunicano di aver fatto prigionieri mille uomini dopo un contrattacco tedesco, diverse centinaia sono polacchi. Cristine con un megafono si mise a parlare e a chiedere nella loro lingua se fossero disposti a combattere per loro stessi, e tutti si unirono alla richiesta. Le sue parole contenevano il canto di una terra ferita, di una battaglia che si sarebbe conclusa solo con la liberazione della Polonia. Cristine Granville è scomparsa prima che la sua amata Polonia fosse liberata. Sprezzante com’era del pericolo concluse la sua vita pochi anni dopo la guerra per mano dì uno stalker dì cui non aveva considerato bene la pericolosità. A noi, ed alla storia, rimane un esempio dì eroismo dell’uomo o della donna comune dì cui la seconda guerra mondiale ne annovera diversi. In questo momento particolare della Giornata della Memoria fa bene sottolinearne queste gesta poiché, non è solo un modo per ricordare, ma anche uno sguardo profondo sul diritto dì ogni essere umano dì poter vivere la propria umana vulnerabilità come mezzo di riscatto. Sugli ebrei, i nazisti materializzarono la visione dì coloro i quali rappresentavano qualcosa dì errato rispetto ad un’ideologia che celebrava un ordine finto, fatto di obbedienza e calcolo meticoloso di perdite e profitti. Cristine rischiò la propria vita più e più volte. Diede il suo contributo affinché si potesse pervenire ad una società dove tutti si sentissero liberi dì esistere e dì esprimere il proprio modo dì essere. Per favorire tale risultato s’impegnò duramente, fu la prima donna a lavorare sul campo come agente speciale per gli inglesi, e fu l’agente donna che servì più a lungo la Gran Bretagna, in vari Paesi, per missioni sotto copertura, quando l’aspettativa dì vita per un agente era dì circa un mese. Trasmise una delle prime informazioni dì spionaggio circa i piani dì Hitler riguardo l’invasione dell’Unione Sovietica. Questa straordinaria capacità dì dare fu senza dubbio la sua grande dote che la rese una leggenda tra gli agenti segreti. Oggi della storia dì Cristine Granville, oltre ai documenti che ne attestano le gesta e la memoria dei pochi ancora sopravvissuti che l’hanno conosciuta, rimane una traccia durevole per il nostro tempo. Questa traccia attesta che il male non è onnipotente ed è possibile resistergli, affinché questo accada bisogna sfidare il principio di autoconservazione poiché è proprio questo, come ebbe a dire anche il sociologo Bauman, “che funziona come assoluzione dall’accusa dì insensibilità morale e dì inazione” (Z. Bauman, “Modernità e Olocausto”). Letture correlate:
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