Un delizioso film di Stephen Frears, con interpreti principali l'attrice Meryl Streep e l'attore Hugh Grant, ci proietta nell'universo dell'ereditiera americana Florence Jenkins, donna priva di talento lirico ma con il fortissimo desiderio di diventare una cantante d'opera. Lasciamo ai critici cinematografici la parola circa l'analisi del film in se, ma ciò che colpisce, attraverso un osservazione della storia, è il messaggio di cui la pellicola si fa portavoce. Florence Jenkins non aveva talento per il canto però, tanto nella sua vita reale, quanto nel film, emerge il potente nesso che riusciva a creare con il pubblico e con chi le stava attorno: il marito e il pianista che l'accompagnava nei recital. Una storia fatta di vicinanza umana che lega tutti i protagonisti alla vulnerabilità dell'altro, contagiosa nell'attrazione e in grado di sostenere la sua eroina fino in fondo. Veramente un marito compiacente e un pianista bisognoso di lavorare, assieme ad un'improbabile cantante, possono da soli creare una tale vicinanza d'anime trascinando in tutto questo migliaia di persone? Non si spiega completamente la vicenda artistica di Florence senza l'approfondimento di alcuni aspetti. Florence ci fa vibrare dentro perché scorgiamo nella sua determinazione a esprimere ciò che sente di essere il desiderio di celebrare il suo limite così com'è: goffo, abnorme e sincero. Quasi un balsamo, in un'epoca così performante. Percepire la silenziosa e straordinaria solidarietà che si crea tra lei e il pubblico al concerto in onore dei soldati al fronte è assolutamente appagante. La platea è perplessa e ridicolizzante prima, poi via via catturata dal contagioso bisogno di porgere l'altro lato dell'umano, come una segreta simmetria fatta, alla fin fine, di ammirazione profonda per la grande motivazione di Florence nel saper utilizzare ciò che le serve per vivere senza chiedere altro. Il pubblico, mentre ascolta, non conosce la vicenda umana di Florence Jenkins, malata da anni e costretta a venire a patti con il dolore, la rinuncia ad una vita normale, un matrimonio bianco e niente figli. Il pubblico non sa tutto questo, eppure da qualche parte lo avverte perché, dopo i primi momenti di incredulità, si schiera decisamente dalla sua parte senza se e senza ma. L'imperfezione di Florence Jenkins, mirabilmente (è il caso di dire) padroneggiata, commuove e consola, fa sentire meno soli nei propri limiti permettendo l'ascolto di ciò che spesso è celato e nascosto per paura di risultare meno adeguati. Stephen Frears, il regista, già altre volte ci ha abituati ad una narrazione che pone in primo piano l'aspetto vulnerabile e contraddittorio dell'umano come in "The Queen" o in "Philomena". Anche l'attrice Meryl Streep a proposito della vera Florence, ha avuto modo di dire che "nella sua passione per il canto c'era qualcosa di toccante" che lei ha voluto rendere totalmente nella sua interpretazione. Pensiamo ad alcuni momenti del film che sottolineano in modo significativo tali aspetti. St.Clair, il marito, quando apprende da Florence che la stessa ha appena prenotato la Carnegie Hall per esibirsi per sostenere moralmente le truppe americane al fronte, tenta garbatamente di dissuaderla, lei risponde: "se il Signor Churchill non avesse sfidato Hitler, ora lui sarebbe al balcone di Buckingam Palace ad abbaiare come un dobermann", o anche: "la morte è stata la mia compagna fedele per cinquant'anni, ho vissuto senza sapere se il mio corpo si sarebbe arreso, ma l'ho sfidata, e sono ancora qui!".
"Applaudite! Applaudite!", scandendo con forza le parole, trascina il pubblico la bionda e giovane ragazza di un uomo influente che precedentemente aveva riso anche lei delle stonature della cantante, ma poi, conquistata dal bisogno vero di Florence, fa il tifo, e così il pubblico della Carnegie Hall ha come un cambio di rotta, svegliato da qualcosa di invisibile che irrompe, trascina, per esplodere infine in un'emozione incontenibile. Mai un simile santuario dell'arte aveva visto qualcosa del genere. Lo spettacolo di un'umanità palpitante che partecipa all'altrui imperfezione per godere del proprio essere toccati dentro. Come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché, – di dolore ch'era gioia, di gioia ch'era dolore. (G.Deledda, Canne al Vento) Lo sguardo finale di Florence verso il pubblico è questo, la vita che riemerge con la sua voglia prorompente di esserci, la sottile linea tra ciò che si rende visibile e l'invisibile, di nuovo tracciata con equilibri ridefiniti. Uno sguardo tra il meravigliato e il commosso. L'espressione intima di un'anima finalmente libera di esistere al di là dei propri ostacoli. E noi che guardiamo Florence pensiamo: si, c'è l'ha fatta, c'è l'ha fatta per tutti! Il messaggio di Florence è nel poter rimanere al mondo trovando la via per rinascere tante volte, allenare il proprio coraggio alla capacità di sottomettere le punte aspre dell'esistenza. Dare vita ad un'espressione vera e palpitante, nuova e meravigliosamente gioiosa. Come sostiene lo psichiatra Eugenio Borgna: Avere subito un naufragio accresce la sensibilità verso le derive degli altri. È un'ombra che protegge da ogni tentazione di violenza e distruzione. E nella scena finale del film siamo tutti per lei quando afferma: "[...] possono dire che non so cantare ma non possono dire che non ho cantato!". Si, per Florence, la cosa più importante non è essere qualcosa di diverso da ciò che si è ma percorrere quel sottile spazio che separa la vita dalla morte con onestà e forza, trarre da quest'esperienza la possibilità di dare un volto nuovo a se stessi. La sfida dell'eroe è il carburante per dare vita ad una meravigliosa e scintillante esplosione di energia vitale che inebria e sostiene. Viva Florence! Siamo tutti con te! Letture correlate:
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