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La fine del buio

5/9/2019

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Johann Hari è un giornalista che scrive per le maggiori riviste americane ed europee come “New York Times” e “Le Monde” e il suo libro, "La Fine del Buio", è un avvincente studio sui meccanismi depressivi che occupano tanta parte del vivere di milioni di individui.
la fine del buio, Hari, Studio Pancallo, psicologia
Hari analizza i sintomi della Depressione partendo dal proprio disagio individuale, a diciotto anni gli è stata diagnosticata una forma depressiva e per molto tempo ha considerato l’assunzione del farmaco come l’unica risposta capace di contrastare il proprio disagio.
Partendo dunque dalla sua esperienza è pervenuto ad una prospettiva nuova tesa a mettere in luce i legami tra sociale ed individuale e di come questi possano portare allo sviluppo di un disagio che viene costantemente autoalimentato.

In particolare nella sua lunga disamina pone l’attenzione sulla teoria maggiormente accreditata dalla diagnostica: l’idea che il sintomo depressivo sia frutto di uno squilibrio dei neurotrasmettitori legato ad un deficit della serotonina.

Hari ha intervistato i maggiori esperti in materia, che studiano tale disagio da molti anni, allo scopo di porre al centro la visione che “la scienza viene per prima” e come tale vanno ricercate conferme alle tesi scientifiche solo attraverso le prove sperimentali; inoltre pone l’accento su come le ricerche a più larga diffusione siano finanziate dalle case farmaceutiche stesse, che hanno interesse ad alimentare un mercato farmaceutico.

Un aspetto molto importante, che tocca implicazioni psicologiche profonde, è quello legato al fatto che una volta che ci si abitua a raccontarsi una storia sul proprio dolore, si è estremamente riluttanti a metterla in discussione; è come se tale convinzione possa “mettere al guinzaglio” il dolore e cambiarla equivale a lasciarlo dilagare in maniera incontrollata.

Modificare alcune delle convinzioni che ci si è creati non è un processo indolore, porta a sentisi vacillare e il non poter trovare subito una strada alternativa crea sconcerto. Allora si chiede Hari perché porre in discussione teorie che sembravano accreditate?

La ragione principale sta nel fatto che è fondamentale per la salute degli individui sapersi orientare tra ciò che è reale e ciò che si è abituati a ritenere tale. Molti scompensi interiori sono profondamente legati alla difficoltà di poter affermare la verità di ciò che l’individuo percepisce a discapito di ciò che viene normalmente accreditato.

È un problema questo che investe tutta la società e potersi interrogare da prospettive nuove senza perdersi nell’illusione è proprio ciò che può restituire all’individuo maggiore sicurezza ed appagamento riconsegnandogli la legittimità del proprio sentire.
Il testo non vuole negare che le sostanze antidepressive possano rappresentare una soluzione parziale per un ristretto numero di persone depresse o ansiose, ciò che pone in evidenza è che non è possibile affermare che gli antidepressivi possano risultare sufficienti per la stragrande maggioranza dei soggetti affetti da tale sintomo.

Hari allora si chiede:"e se la depressione fosse, in realtà, una forma di lutto, dovuta al fatto che la nostra vita non va come dovrebbe?"

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E se fosse una forma di lutto per le connessioni che abbiamo perso, ma di cui abbiamo ancora bisogno?” 

L’ipotesi è stimolante per creare un collegamento tra i vissuti dell’individuo e la risposta sociale ai medesimi. Prendiamo ad esempio le persone che vivono dei lutti, spesso si sentono dire che sono depresse, il messaggio sotterraneo è che non sanno accettare il dolore della perdita. Ma se tale forma di disagio si protrae a lungo perché le condizioni sociali non attivano risorse diverse?

Esiste un profondo senso di vergogna in molte persone che non riesco ad affrontare un dolore, si sentono deboli e sbagliate, può essere di momentaneo sollievo trovare qualcuno che ti dice che il problema non è la tua vita ma la chimica del tuo cervello.

Una delle ricerche più importanti è stata quella redatta da Brown e Tirril, un medico e una psicoterapeuta in Inghilterra. Insieme al loro team hanno organizzato una importante indagine su due gruppi di donne; al primo gruppo appartenevano quelle a cui era stata diagnosticata una depressione, al secondo quelle che non manifestavano sintomi di questo genere.

Ciò che è emerso pone delle riflessioni in merito:"a provocare il disturbo non era solo un evento negativo, ma anche l’esposizione prolungata a una fonte di stress. E se avevi degli stabilizzatori positivi nella vita, la probabilità di cadere in depressione si riducevano drasticamente."

Le tecniche di indagine proposte da questi ricercatori sono state utilizzate anche in luoghi diversi, come la campagna basca e lo Zimbabwe rurale. Questo ha portato i ricercatori a concludere che i fattori determinanti erano i medesimi in qualunque luogo.

La profonda implicazione di tale ricerca non risiede soltanto nell’inquadrare il problema attraverso un modello bio-psico-sociale, quanto nel considerare come elemento pregnante il prestare attenzione all’ambiente dell’individuo quanto la terapia fisica. Per Hari il punto centrale della sua indagine sta nel fatto di considerare tanto l’ansia quanto la depressione come delle forme di disconnessione, l’essere distanti da ciò per cui si è tagliati ed averne un bisogno innato, bisogno che si è perso strada facendo.

Queste le cause individuate dalla sua ricerca:
  1. l’abitudine a funzionare come macchine che crea un senso di monotonia interiore;
  2. la solitudine come prodotto del modo in cui oggi si vive, non l’assenza fisica, quanto la sensazione di non condividere niente con nessuno, che conduce verso forme d’ansia e di depressione;
  3. la perdita di radici interne, conseguenza di un abitudine a soddisfarsi attraverso la cultura dell’oggetto e del prestigio. Il divario che si crea tra il bisogno dell’oggetto e la necessità di appagamento di un bisogno soggettivo crea depresso ansia.
    La considerazione principale è data dal fatto che i valori intrinseci sono parte fondamentale della natura umana ma anche piuttosto delicati;
  4. depressione come tentativo di aggiramento dei traumi infantili, una forma di punizione per non aver saputo affrontare diversamente un disagio, la colpevolizzazione è in se sbagliata rispetto a ciò che può essere accaduto realmente ma restituisce al soggetto il potere di riprendere il controllo su se stessi;
  5. la costruzione di gerarchie sociali che porta inevitabilmente a sentirsi in difficoltà quando il proprio status è minacciato oppure quando scivola pericolosamente verso il basso;
  6. la sconnessione dalla natura, la poca frequenza con gli aspetti legati a fenomeni naturali anche semplici: il profumo della terra, il rumore del mare,l a luce del sole ecc... facilita il divenire prigionieri del proprio ego, "dove l’aria esterna non riesce a penetrare";
  7. la mancanza di prospettive sul futuro, la tendenza sociale a larga diffusione di creare precariato;
  8. il peso dei geni nel cambiamento emotivo, ossia la presenza di una variante del gene 5-HTT che rende più vulnerabili agli aspetti depressivi, ma sempre in presenza di un certo tipo di ambiente .La capacità del cervello di modificarsi in rapporto all’esperienza.
L’articolata disamina di Hari, come espresso all’inizio, si concentra sulle prove sperimentali e su come queste siano concordi nello stabilire che il sintomo depressivo ha tre cause: biologiche, psicologiche e sociali.

Una riapertura della coscienza può consentire l’uscita dal blocco, riprendere in mano quello che si è, e cosa si è capaci di fare: uscire dal blocco.

Non è un libro che promette una ricetta facile, anzi in diverse parti, il libro evidenzia come l’allontanamento dalle convinzioni che si sono create possa rappresentare inizialmente motivo di ulteriore destabilizzazione, ma esiste un concetto alla base di grande importanza: IL VALORE DELL’ESPERIENZA È MOSTRARTI LA POSSIBILITÀ.

Vivere è quel mirabile esercizio che consente di prolungare l’effetto che le possibilità reali scatenano negli individui. Un inno al ridare valore all’esistenza come opportunità, una visione che emerge smantellando i muri invisibili e spessi che la centratura sul proprio Ego è capace di creare.


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    La Dr.ssa Anna Pancallo, psicologa-psicoterapeuta è iscritta all’Albo Regionale Veneto, è specializzata in Psicoterapia della Gestalt, titolo conseguito presso la Fondazione Italiana Gestalt di Roma.

 Svolge l’attività dal 1993 e opera negli studi di Treviso e Mantova.

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