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Noi figli di Eichmann

3/12/2015

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"Noi figli di Eichmann" è il titolo di un libro che raccoglie due lettere che il filosofo Gunther Anders ha scritto al figlio di Eichmann nel 1963, dopo la condanna a morte di suo padre in Israele, e nel 1988, venticinque anni dopo aver atteso una risposta mai arrivata. 
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Anton Zoran Mušič, dal ciclo Nous ne sommes pas les derniers
Karl Adolf Eichmann, il funzionario nazista, esperto di questioni ebraiche, che nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario che trasportava gli ebrei e gli zingari ai vari campi di sterminio era riuscito, grazie a un passaporto del Vaticano, a nascondersi in Argentina dove aveva trovato lavoro presso la Mercedes-Benz sotto il falso nome di Ricardo Klement.
​La moglie dopo aver sostenuto la versione della fucilazione di suo marito, che sarebbe avvenuta a Praga il 30 aprile del 1945, lo raggiunse nel 1951 a Buenos Aires. Al figlio Klaus disse che l'uomo che gli avrebbe fatto da secondo padre era lo zio Ricardo Klement. 

Nel maggio del 1960 due agenti del servizio segreto israeliano sequestrarono Adolf Eichmann mentre usciva dal lavoro e lo condussero in Israele dove si svolse il processo che si concluse con la pena capitale. 

Dopo quell'esecuzione, Gunther Anders scrisse la prima lettera al figlio di Eichmann, Klaus, allora ventiquattrenne: 

"L'origine non è una colpa, come non lo è per i sei milioni di ebrei passati sotto la solerte contabilità di morte di suo padre. Nessuno è artefice della propria origine, neppure lei che non solo venne a sapere quello che lui aveva fatto, non solo delle camere a gas e dei sei milioni di morti. Già questo sarebbe stato sufficiente. No. Oltre a ciò lei dovette venire a sapere che il nuovo padre che aveva cancellato la memoria del suo primo padre altro non era che questo stesso primo padre. Insomma che quest'uomo era proprio Adolf Eichmann.
La sua esperienza che a prima vista potrebbe sembrare un'esperienza che ha potuto fare solo lei, è un'esperienza che facciamo o almeno dovremmo fare anche noi. E questa è la ragione per cui lei per noi è un simbolo. Perché anche noi negli ultimi due decenni abbiamo vissuto nella convinzione che il mostruoso mondo di ieri da cui traiamo origine ce l'eravamo lasciato alle spalle e l'avevamo sostituito con un altro. E adesso anche noi dobbiamo prendere atto che eravamo vittime di un'illusione: ciò che per noi ha fatto le veci del padre è identico al padre che aveva dominato due decenni fa. Oppure, espresso altrimenti: il mostruoso non soltanto è stato, ma è stato un'introduzione". 
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il processo in Israele a Karl Adolf Eichmann
Gunther Anders coglie l'essenza del mostruoso nella discrepanza che, allora come oggi, esiste tra l'azione che una persona compie all'interno di un apparato e l'impossibilità per la stessa di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni. 

Allora furono sterminati sei milioni di zingari ed ebrei da parte di persone che accettarono questo lavoro come un qualsiasi altro lavoro.

Nei processi gli accusati si sentivano offesi, sgomenti, o, come Eichmann, inadeguati, non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, ma perché portavano come giustificazione la pura e semplice ubbidienza agli ordini e la fedeltà all'organizzazione. Si consideravano solamente dei collaboratori.

A noi vien da pensare perché fuggissero in remoti paesi, ma meglio non ingarbugliare ancor più la matassa, cerchiamo di stare nel solco delineato da Gunther Anders e cerchiamo di capire perché siamo tutti “figli di Eichmann”.

Riflettiamo sul fatto che gli autori di quei crimini non si sono comportati molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell'esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi si comporta quando inizia il suo lavoro in un qualsiasi contesto.

La divisione del lavoro nell’organizzazione dello sterminio, in quel sistema, uguale a quello che vige in ogni struttura aziendale fa sì che, all'interno di un apparato produttivo burocratico, l'operatore, il lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, a causa della suddivisione dei processi lavorativi, di intendere realmente l'esito ultimo a cui porterà la sua azione.

A compartimenti stagni ognuno opera e svolge una piccola parte senza sapere o per meglio dire, senza porsi così il problema morale del fine del suo lavoro.

L'operatore così diventa irresponsabile e senza cattiva coscienza, la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che la sua azione porti, concatenandosi con altre competenze a una produzione di armi, allo sfruttamento e all’inquinamento della terra o alla cattiva alimentazione di un essere umano.

Insomma la tecnica sottrae all'etica il principio della responsabilità personale. E questo perché chi agisce all’interno di un apparato complesso, dove le azioni sono integrate e reciprocamente condizionate diviene difficile stabilire il risultato del fare del singolo, creando allo stesso un alibi rimosso.

Così il singolo operatore è responsabile solo della modalità del suo lavoro, non del suo fine. Per cui anche l'addetto al campo di sterminio non affermerà mai di aver agito per lo sterminio, ma, per quanto orrendo ciò possa apparire, dirà di sé che ha soltanto svolto un lavoro o eseguito un ordine. 

Questo succede anche oggi sia per chi lavora nelle fabbriche d'armi italiane, sia per quel pilota che sganciò una bomba nucleare (vedasi le bombe di Hiroshima e Nagasaky) o per chi pilota un drone in un’azione di guerra. Opeatori che non immaginano il risultato della loro azione o, per come stanno nell'apparato, la giustificano.

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Hiroshima rasa al suolo dalla bomba atomica, ottobre 1945
​Quanto più si complica l'apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parte. 

Tutto ciò rende il nostro sentimento inadeguato rispetto alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa di così smisurato da rendere il nostro sentimento incapace di reagire. 

Da "analfabeti emotivi", dove il troppo grande ci lascia freddi e paralizzati, assistiamo con indifferenza alle tragedie umane come un giorno ai sei milioni di zingari ed ebrei sterminati nei lager. 
 
Questo processo inizia abbassando la nostra soglia percettiva come reazione ad un disagio emotivo che deve essere portato fuori dal nostro vissuto, poi l'abitudine a proiettare, diviene una consuetudine che separa dalla difficoltà connessa alla responsabilità verso parti proprie che recitano verità emotive scomode.

Così, un po' per volta, diviene naturale assistere con distacco ad eventi di grossa portata, come se tutto questo trovasse sempre una spiegazione al di fuori di se stessi, quindi imputabile ad altri.

"E poiché vige questa regola infernale - scrive Gunther Anders - ora il mostruoso ha via libera".

Quindi se ci siamo liberati dal nazismo come evento storico ancora non ci siamo liberati da ciò che ha reso possibile il nazismo cioè l’indifferenza di fronte alla tragedia, di fronte lo sterminio d 6 milioni di persone, al dramma mostruoso, nata dalla discrepanza da ciò che possiamo fare con la tecnica e la responsabilità di tale fare con le sue conseguenze ultime.

L’alibi che l’apparato ci fornisce ci rende irresponsabili, esonerandoci dal farci carico degli scopi per cui tale apparato è stato costruito.

Per questo motivo l'esperienza nazista non è un evento isolato ma un evento che si può riprodurre, e di fatto si riproduce, nell'agire dell'uomo attraverso l’apparato, attraverso ogni apparato della tecnica. Così siamo tutti figli di Eichmann.

Gunther Anders, con le sue lettere, offre al figlio del gerarca nazista una possibilità di riscatto dalla condizione in cui l'ha ridotto suo padre che consiste nell'invito a non ripetere che suo padre aveva soltanto collaborato, che aveva solo ubbidito ad un ordine.

​Ma il figlio di Eichmann non risponde e Gunther Anders, venticinque anni dopo, torna a scrivergli per dire che se non siamo responsabili della nostra origine, siamo comunque responsabili della fedeltà alla nostra origine.

"Io non la considero colpevole perché è venuto al mondo come figlio di suo padre - conclude Gunther Anders -, ma la considererei colpevole soltanto qualora lei, confondendo la pigrizia mentale con la pietà, continuasse a restare figlio di suo padre".

Il testo proposto è una sintesi integrata di più testi provenienti da più fonti. L'obiettivo è l'introduzione, attraverso la "recensione" del libro di Gunther Anders "Noi figli di Eichmann", edito dalla casa editrice Giuntina, di introdurre il tema dell'analfabetismo emotivo. Tema che approfondiremo ancora in futuro.
​
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    La Dr.ssa Anna Pancallo, psicologa-psicoterapeuta è iscritta all’Albo Regionale Veneto, è specializzata in Psicoterapia della Gestalt, titolo conseguito presso la Fondazione Italiana Gestalt di Roma.

 Svolge l’attività dal 1993 e opera negli studi di Treviso e Mantova.

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La Dr.ssa Anna Pancallo,  psicologa psicoterapeuta iscritta all'Albo Regionale Veneto, è specializzata in Psicoterapia della Gestalt, titolo conseguito presso la Fondazione Italiana Gestalt di Roma. Svolge l'attività dal 1993 e opera negli studi di Treviso e Mantova.
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