Miguel Benasayag è, secondo la sua stessa definizione, un "investigatore militante". All'età di soli diciassette anni, si unì alla guerriglia guevariana dell'Ejército Revolucionario Popular (ERP) dove combatté contro la dittatura in Argentina. Arrestato e torturato per quattro anni fu liberato a seguito dell'assassinio da parte della giunta militare di quel paese di due religiosi francesi, la stessa giunta, dopo uno accordo diplomatico, acconsentì a liberare tutti i prigionieri francesi dell'epoca. Benasayag, grazie alla sua doppia nazionalità franco-argentina - la madre, ebrea francese, aveva lasciato la Francia nel 1939 - poté beneficiare della liberazione nel 1978 ed approdò così in Francia, paese che non conosceva ancora. Lì divenne scrittore, psicoanalista e filosofo, partecipando attivamente a diversi gruppi e associazioni. Tra i fondatori e animatori del collettivo culturale Malgré Tout, Miguel Benasayag è autore di numerosi libri tra cui, tradotti in italiano, "Il mito dell’individuo" (2002), "L’epoca delle passioni tristi" (2004, con G. Schmit) ed "Elogio del conflitto" (2008, con A. Del Rey). A Parigi oggi si occupa di problemi dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’interazione tra tecnologia ed essere umano, che è il cuore pulsante del libro "Funzionare o esistere?" presentato in queste pagine, dove l'autore analizza ciò che ci rende umani, la nostra esistenza oltre la moderna ingiunzione di funzionamento e produttività. La prima e più ampia parte del testo è dedicata all’analisi delle strutture sociali, la seconda assume l’orientamento di un’indagine sulle risorse esistenziali che abbiamo a disposizione per decostruire la gabbia della crisi. Un libro "salvifico" che, nella nitida logica causa effetto positivista, ci fornisce una visione del cosa fare. Essere vivo, e dopo? Come possiamo essere profondamente consapevoli della nostra esistenza, della sua singolarità senza cedere nella sola logica di efficienza, senza cadere nel puro utilitarismo, e avere la tentazione di modellare tutto, compresi gli umani? Che cosa ci stiamo perdendo in questa illusione collettiva che ci separa dai nostri bisogni più profondi, dalle nostre attese più vere?
Il filosofo e psicoanalista decostruisce la nostra visione lineare del tempo, dove ciò che è "non esiste nel tempo ma produce tempo", e guarda al nostro rapporto con gli anziani, di cui ignoriamo la saggezza, considerandoli come vecchi, improduttivi e costosi. Infine, in modo brillante, analizza come il fallimento non sia più visto come un'opportunità, quella di interrogarsi, di esprimere in qualche modo la propria finitudine, di diventare resilienti, ma rappresenti, o sia, una "disfunzione" volgare a tal punto di rischiare di perdere ciò che ci rende persone viventi. Il funzionare si serve senza dubbio dell’apparato delle tecnologie, che penetrano sempre più in profondità nella nostra esistenza, smartphone in primis, con le loro numerose app che scandiscono le nostre relazioni, mescolandosi con l’esistenza. Così come l’onnipresente informatica tende a scomporre la complessità dell’esistere in "pacchetti di dati" (big data) controllabili e manipolabili attraverso algoritmi, supportati anche dalle scienze cognitive (intelligenza artificiale per esempio). Tutto ciò gravita nel sistema economico capitalistico e di consumo che è, secondo il nostro psico-filosofo il responsabile della vittoria del funzionare sull’esistere. Anziani considerati ormai "vecchi", fuori dal ciclo produttivo, come dicevamo sopra. Giovani che non hanno più il diritto di essere giovani, ma sono inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l’imperativo di essere "imprenditori di se stessi". Fragilità umane di tutti noi che vengono stigmatizzate come intoppi nella realizzazione di una felicità del qui e ora, dove impera l'era del godimento fulmineo, col risultato di impregnarci di angosce, disturbi e paura del futuro. In questa crisi epocale, chi paga il prezzo più salato sono i giovani nei loro percorsi di formazione, che si esprime innanzi tutto nell’invito a farsi amministratori e imprenditori della propria esistenza: "devi essere performante, devi essere efficiente, la tua vita è una risorsa che non puoi permetterti di sprecare, anche perché qualsiasi ritardo o malfunzionamento non può che essere una tua responsabilità!". Se la tua vita è la tua impresa, un fallimento non può che essere colpa tua. Di qui l’inquietante divisione tra vincenti e perdenti; invece di un normale percorso dotato di senso l'esistenza si riduce rapidamente al bilancio di competenze e skills spendibili sul mercato, sul quale tutti tendono ad appiattirsi. Ma la complessità piena di senso dell’umano è un qualcosa che va al di là del semplice "funzionamento" della macchina. Funzionare ed essere efficienti non equivale ad esistere come persone nella nostra unicità, senza considerare la fragilità del nostro corpo e delle nostre emozioni come ricchezza di ciò che siamo in relazione con gli altri. Così l'autore ci invita a recuperare una visione verso un futuro che sia sempre meno un risultato e sempre più un cammino, ed accettare un modus vivendi che a volte può esser facile e altre difficile. Per la società del funzionare l'ideale è la potenza pura della macchina, e dinanzi a esigenze della stessa le esperienze negative, gli insuccessi, il dolore, sono trattati come difetti tecnici, da risolvere meccanicamente, non importa se a spese del senso che avrebbero potuto avere per una vita. L’esperienza dell’invecchiare e del morire non potranno più riguardarci come condivisione tra generazioni, ma soltanto come limiti da superare attraverso la tecnica medica, come se non ci riguardassero nel vivo della nostra coscienza profonda. Ma come tutto ciò che resta nell'ombra se ci ostiniamo a non prendercene cura, i circuiti del funzionamento umano continueranno a vacillare e la crisi sarà permanente, il negativo farà ritorno in forme perverse e distruttive, come già intuiamo nelle odierne manifestazioni di odio. In "Funzionare o esistere?" l'autore ha saputo delineare lo scenario dei condizionamenti attuati dalla nostra società per poi spostare l’attenzione sulle dinamiche esistenziali "conniventi" con la crisi di senso che attraversa la nostra epoca affermando come siamo noi stessi a lasciarci sedurre dalla logica del funzionare più che dell'esistere. Funzionare è più facile, più comodo, è completamente prevedibile, tranquillamente razionale, senza imprevisti e senza sorprese; laddove l'esistere è radicalmente temporale, un’incessante richiesta di adattamento o esilio verso situazioni diverse, che la vita ci propone, e all’interno delle quali ogni volta dobbiamo costruirci o ricostruirci, inventarci, scoprirci. Che fatica! Vero? La tendenza comune è quella di evitare la vita e la sua imprevedibile dinamica, adattarsi al posto preconfezionato dalla società, crogiolarci nelle nostre credenze e abitudini, sedotti dagli imperativi dell’adattamento, del fitness e della performance. Il prezzo? L’annientamento del nostro singolare desiderio di esistere. Di fronte a questa soluzione comoda e distruttiva, sta invece la possibilità di lavorare per un futuro che rimetta costantemente in causa quanto già acquisito e sedimentato, che guardi verso la cura e la custodia di ciò che non si riduce solo all’efficienza della performance e alla chiara freddezza del dato. Questa ultima parte nel libro occupa una porzione minore, si risolve quasi in un appello in difesa della fragilità esistenziale e per l’elaborazione di un’etica situazionale dove, in un contesto come quello descritto da Miguel Benasayag, l’assunzione consapevole della nostra finitudine ci dischiude il "dono dell’esistere", e alla luce di tali intuizioni etiche potremmo essere capaci di inventare il quotidiano e ri-inventarci. La partita dell’esistere si gioca infatti nel vivo delle concrete situazioni, anche disastrose, che via via ci vengono nostro malgrado offerte, nel vivo degli incontri veri, non virtuali, in cui capita d'imbattersi quotidianamente e così si apre l’unica occasione possibile perché desideri e aspirazioni che ci abitano possano effettivamente prendere corpo, acquisire realtà, realizzazione e spessore. Quale antidoto dunque se non quello di imparare ad abitare il tempo, esponendosi al rischio dell’esperienza?
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