Caratterizzate da una dinamicità squassante nella loro fermezza marmorea, generate da un potente virtuosismo tecnico, da una incontenibile esuberanza espressiva e con un vigoroso impatto psicologico, le sculture del Bernini - teatrali e sofferenti anime - sono la massima espressione di uno scultore olistico (permetteteci questa definizione) che concepiva la sua arte, e quindi la vita, nell’armonia del tutto. La Medusa del Bernini, in particolare, c’inquieta ed esalta nell’espressione che cela un mistero: lo sguardo. In questa scultura intima, non realizzata su commissione ma solo grazie all’estro e all’ispirazione dell’artista in un suo momento di crisi, anima, mente e corpo, costituiscono un tutt’uno con l’arte manuale e corporale, poetica e visionaria, insomma i giusti ingredienti verso la metamorfosi a cui c’ispira la Gorgone dell’artista napoletano. Metamorfosi e trasmutazione che alcune opere d’arte ci offrono, a tal punto che nel guardarle con attenzione non saremo più gli stessi. Questo fu il proposito anche di Gian Lorenzo Bernini in tutta la sua produzione artistica e in modo particolare nel Busto di Medusa dove ritroviamo quell’estrema magica forza trasformatrice. La sofferenza espressa nel volto del ritratto marmoreo, seccondo Patrick Haughey nel suo Bernini's "Medusa" and the History of Art, sarebbe dovuta ai morsi dei serpenti ed al fatto che Medusa è conscia di essere in procinto di trasformarsi in un mostro. Mentre per lo storico dell’arte Irving Lavin, studioso che incentrava i suoi contributi principalmente sulla correlazione tra forma e significato nelle arti visive, suggerisce che non si tratta di dolore fisico, bensì di una profonda sofferenza morale dove il soggetto sembra in preda ad un'angoscia spirituale, quasi meditativa, come se stesse intraprendendo un processo di catarsi. "[…] una sorta di autoritratto metaforico attraverso il quale lo scultore mostra il potere di trasformazione della sua arte, [...] messa al servizio di un fine morale superiore di espiazione dell'angoscia prodotta dalla consapevolezza della sua fallibilità." (Irving lavin) L’opera si presta a molteplici triangolazioni dello sguardo: dell’artista, dell’opera che ci guarda e si guarda, come se fossimo all’unisono uno specchio ma anche qualcosa da plasmare, quasi da pietrificare, di uno sguardo che corre lontano nel tempo ad incontrare quello dello scultore e dove lui ci incontra, di uno specchio grazie al quale la stessa Gorgone si autopietrifica. In questa opera d’arte, che non ha precedenti iconografici e iconologici nella sua originalissima interpretazione del mito, lo scultore riprende il suo giovanile tema del confronto tra scultura e poesia: dopo Virgilio e Ovidio, è la poesia del Marino che gli offre uno spunto. Il mito narrato da Ovidio, dove i bellissimi capelli biondi di Medusa vengono trasformati da Minerva in orride serpi come punizione per aver consumato un amplesso con Nettuno, è rivisitato in modo originale in alcuni versi di Giovan Battista Marino dove il poeta finge che sia una statua di Medusa a parlare: "(…) Non so se mi scolpì scarpel mortale, / o specchiando me stessa in chiaro vetro / la propria vista mia mi fece tale". Il mito in questi versi è rovesciato e non è la Gorgone ad impietrire con lo sguardo i suoi nemici, ma è lei stessa che, cogliendo per fatale errore la sua immagine in uno specchio (vetro), sembra essersi trasformata in marmo. Ispirato dal poeta, Bernini ci regala un’altra prova delle sue grandi capacità nel saper cogliere il momento di un'azione transitoria e la complessità di uno stato d'animo umano. Trasferisce il tutto ad un manufatto inerme e apparentemente freddo, sicuramente duro, tutta la sua visione delle cose, le sue emozioni, sino a plasmare nell’opera la sua essenza espressiva: le metamorfosi sono molteplici e si trasmettono nei secoli per continuare a trasformarci. Trasformazione, come trasmutazione e metamorfosi, il potere e la potenza della propria arte, sono elementi nei quali credeva fortemente Gian Lorenzo Bernini. Anche nel Busto di Medusa, c’è una raffinata metafora barocca sul potere della scultura, sul valore dello stesso scultore, sul suo potere “alchemico” di trasformare la materia e le anime, oltre che se stesso, in un principio evolutivo che trascende un concetto lineare di tempo. “Credete voi che l’uomo sia uno semplicemente, o un composto di molte parti e di molte potenze? Un composto senza dubbio.” (Torquato Tasso) “Quello che noi ci immaginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centauri.” (Galileo Galilei) Il “composto” può essere la risultante scientifica di diversi moti fisici o la risultante immaginaria di creazioni arbitrarie, come scriveva Galileo Galilei. Bernini è il coordinatore e il regista della sua squadra omogenea di pittori, stuccatori, scalpellini, fonditori, ovvero si identifica con l’intero mondo dell’arte. Ma più che le singole arti, o le singole parti, importa dunque il “bel composto” come sistema e campo di relazioni in cui un’arte trapassa nell’altra fino a rivoluzionare se stessa in funzione del “tutto”. La composizione va letta quale punto focale di un'insieme complesso, metafora della realtà delle cose, come i nostri vissuti, dove il genio barocco rende manifesto il concetto appunto del "bel composto", ossia la summa, l'unità tematica, visiva e viscerale tra le arti. Il risultato del “bel composto” del Bernini fonde in modo rivoluzionario, in una visione unitaria e dinamica, il tempo e lo spazio, la materia e l’energia: la vita. “Medusa rappresenta la coscienza di un destino che può essere cambiato, il palpito di una vita che si risveglia nella trasformazione, il bisogno insito nell'essere umano, di conciliare il difficile con il bello. Il Mito è una disposizione inconscia della psiche, tanto dell'individuo, quanto dell'umanità, il suo linguaggio permette un riconoscimento di quelle barriere interiori delle quali riuscire ad avere coscienza. Il tema dello sguardo è già presente in Atena poiché il suo emblema, la civetta, ha occhi che possono penetrare le tenebre della notte. (Anna Pancallo, “Lo sguardo di Medusa”) Lo sguardo della Medusa del Bernini ci colpisce per la sua disperata umanità. Negli occhi di questa “immagine istantanea” pietrificata incontriamo anche le nostre disperazioni. Il mistero dello sguardo, magia profonda di questo manufatto artigianale ed artistico, è il risultato di una attenzione maniacale nella cura del dettaglio, ciò che permette all’opera, quindi anche a chi la contempla, di poter raggiungere il tutto che ci avvolge.
Possiamo stupirci nel testo estrapolato dal libro “La Medusa di Gian Lorenzo Bernini. Studi e restauri” (Campisano Editore), che condividiamo a conclusione di questo contributo, come l’importanza del gesto, del fare, dell’attenzione profonda, manuale, artigianale, di una raspata, di un leggero tocco di scalpello, azioni non percepite dal fruitore, segni nascosti nell’opera, possano condurci, attraverso la sublimazione dal gesto, del fare, al sentimento, nelle vette dell’anima. Estratto da “La Medusa di Gian Lorenzo Bernini”
Come noto Bernini usava definire il globo oculare, l'iride e la pupilla in modo estremamente variato, non sistematico né cronologicamente inquadrabile nell'ambito della sua lunghissima produzione, se si eccettuano le opere giovanili realizzate ancora nel solco della collaborazione con il padre Pietro Bernini. La tecnica dell'intaglio degli occhi è esclusivamente finalizzata all'effetto che lo scultore intende ottenere. Si va dall'intaglio del contorno delle iridi con lo scavo più o meno profondo dell'interno dell'iride stessa, entro la quale lo scultore risparmia l'area della pupilla che risalta sul fondo d'ombra, segnando al tempo stesso la direzione dello sguardo (Enea e Anchise, Plutone e Proserpina, Apollo e Dafne, Santa Bibiana, Busto del Cardinale Scipione Borghese o Statua onoraria di Urbano VIII - fig.1 - solo per citare alcuni esempi), al globo oculare liscio (Busto di Paolo V Borghese, Busto di Thomas Backer o la Verità) o apparentemente liscio, ma in realtà trattato con una lieve differenziazione nella tessitura dei segni lasciati da raspe e abrasivi per dare un calibrato risalto all'iride e alla pupilla. Esempi significativi di questo ultimo tipo di trattamento del globo oculare sono gli occhi del David della Galleria Borghese, del 1623-1624, o quelli di Daniele e di Abacuc nelle sculture ambientate tra il 1657 e il 1661 nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo. Il globo oculare dei tre volti maschili di queste sculture appare levigato, ma l'area dell'iride risalta per la superficie più scabra che reca, tra l'altro, lievi tracce di nero vegetale. Testimone diretto della prassi di lavorazione e della tecnica utilizzata da Bernini per fissare lo sguardo di alcune sue sculture è Paul Frèart de Chantelou, che accompagnò l'artista nel suo soggiorno a Parigi del 1665. Bernini afferma di aver marcato con la matita grassa, come guida all'opera dei suoi collaboratori, i particolari dell'iride e della pupilla sui globi oculari del Bambin Gesù nel gruppo marmoreo della Vergine con il Bambino nella Chiesa dei Carmelitani Scalzi a Parigi, poi lasciati incompiuti, mentre durante la lavorazione del Busto del Luigi XIV a chi gli chiedeva a cosa servissero i segni neri marcati sui globi oculari aveva risposto che alla fine del lavoro avrebbe dato qualche colpo di scalpello in quei punti per creare l'ombra della pupilla e imprimere una precisa direzione allo sguardo del Re. Per definire lo sguardo di Medusa lo scultore utilizza una tecnica ancora diversa: il globo oculare è stato levigato con raspe e abrasivi per ottenere una delicata gradazione semi opaca delle superfici, mentre l'iride, a forma di ovale schiacciato, è stata lievemente lucidata e patinata per dare allo sguardo una direzione verso il basso e lievemente convergente ed una palpabile evanescenza. La tecnica utilizzata dal Bernini pietrifica in modo nuovo rimandando Medusa a se stessa nell'impossibilità di una relazione con il mondo. Si coglie infatti come Medusa non in possesso di quell'autonomia dello sguardo capace di farla evolvere. Lo sguardo di Medusa può essere definito come uno “sguardo senza pupilla” (A. Sordini su Merleau-Ponty), non può approfondire ma al tempo stesso nella sua superficialità di visione esprime una profondità, attesta un dolore. Una sorta di profondità della superficie. Non è lei a vedere ma ciò che è visibile della sua condizione si riflette inequivocabilmente sull'altro che non può fare a meno di vedere, guardandola. Sono occhi che non vogliono vedere chi li guarda, paradossalmente però questi occhi sono molto potenti perché esprimono in maniera assoluta il potere di Medusa. E allora siamo irresistibilmente attirati da questo sguardo, andiamo verso di lei con slancio, per poi fermarci e infine, rimanere al cospetto di questo busto marmoreo catturati e attenti. “La guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine – uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire-vedere-sentire – perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere –solo– ricevere– negli occhi – il mondo. (A. Baricco, Oceanomare) Letture correlate:
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