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L’inconscio e la battaglia interiore, indossare l’elmo

19/12/2018

2 Comments

 
La tendenza molto diffusa a separare i bisogni dell’Anima, tanto dal corpo quanto dalla vita pratica, riconduce a quel qualcosa a cui spesso non riusciamo a dare un nome, quantomeno per vie brevi.
inconscio, battaglia interiore, Studio Pancallo, psicologia
Composizione su bianco, Wassily Kandinsky, 1920.
Il termine “Anima” deriva da “Anemos” che vuol dire vento, ma anche turbine, passione e instabilità, l’Anima è un concetto greco che viene espresso per la prima volta da Platone in varie opere: Fedro, Timeo e Repubblica in primis. Un concetto simile viene ricordato anche dal famoso detto “Conosci te Stesso”, posto sul tempio di Apollo a Delfi e comporta un passaggio che includa qualcosa di sconosciuto.

Cosa vuol dire oggi questo detto? In che maniera trova senso nelle nostre vite?
Un aspetto fondamentale da sottolineare è che le nostre vite non possono esaurirsi in tutto ciò che è organico, necessitano di ulteriori risposte poiché il connubio, vento (anemos) e respiro (psiche, da psychein), richiamano ad un attraversamento dell’esistenza dove è fondamentale dare volto a ciò che è immateriale.

Ma tra ciò che pensiamo, e quello che effettivamente riusciamo a realizzare, pare ci sia un cammino costellato di insidie che vanno riconosciute e portate alla luce.

Uno dei motivi principali per cui le persone non portano a termine i loro compiti è perché spostano l’attenzione su altro, questo sembra rivelare una ricerca effettuata di recente negli Stati Uniti.

La ripetizione di un apprendimento conoscitivo si pone allora come un elemento cardine affinché le persone possano realmente fissare dentro il nuovo, dando così voce ad aspetti nascosti del proprio sentire.

Il ricorso alle sollecitazioni esterne per aiutarci a dominare gli impulsi e i comportamenti indesiderati ha un potere che va oltre le situazioni occasionali e può indurre cambiamenti significativi dello stile di vita. In effetti, gli studi stanno dimostrando che crearsi delle buone abitudini che affidano il controllo del nostro comportamento a situazioni ed eventi quotidiani routinari è il modo più efficace per autoregolarsi nel lungo termine: per prendere voti migliori, trovare un lavoro migliore o adottare regimi e stili di vita più sani.
(J. Bargh, A tua Insaputa)
Questa è sicuramente una bella cosa, il problema rimane come costruire delle buone abitudini, cosa piuttosto complessa poiché se si vogliono acquisire comportamenti diversi bisogna cambiare il modo di vedere l’ambiente nel quale viviamo.
 
Ritenere che il problema siamo noi o l’ambiente, è pur sempre la stessa cosa, poiché siamo sempre noi in rapporto a quel qualcosa che dobbiamo modificare. E questo qualcosa è il nostro modo di essere rispetto al nostro sistema di relazioni. Quando si cambia tale aspetto si creano delle condizioni differenti verso una reale evoluzione.

In questa ottica appare opportuno fare qualche riflessione sul dolore che tanta parte occupa nella battaglia interiore di ognuno. Una considerazione che mi sembra centrale al riguardo, è rappresentata proprio dal senso di banalità con il quale il dolore è spesso presente e persistente nelle vite degli individui.

Questa banalizzazione in primo luogo consente la possibilità di tenerlo distante, di negare a lui un nostro riconoscimento, ma c’è anche l’immersione totale nel disagio che spesso, è solo l’altra faccia della medesima medaglia; anche in questo caso non risulta del tutto possibile orientare le tendenze individuali verso una coscienza allargata di se stessi.
 
La tendenza sociale generale è quella di ritenere il passaggio nel dolore un fattore di decrescita, parallelamente ad una maggiore conquista del benessere fisico a cui la ricerca scientifica ha dato vita, si tende a non voler mettere in discussione il dolore interiore, o finalizzarlo ai fini del ricevimento di qualcosa.

Il problema di questi aspetti è di come sia lo sguardo dell’Altro a definirci e non il nostro, ma solo valutandosi con il proprio sguardo si porta il soggetto a far riemergere la memoria e con essa il passato: "si tratta di un passato sempre presente proprio in quanto dimenticato”, questa lucida espressione di Massimo Recalcati (L’Uomo senza Inconscio) pone in modo molto chiaro il problema in termini inconsci: tutto ciò che viene abolito in termini di ricordo non è mai allontanato poiché il suo riflesso si manifesta continuamente per non dire compulsivamente nella vita del soggetto.

Ma ogni conflitto non si manifesterebbe se non avesse un senso per la vita dell’individuo. Siamo figli di un funzionamento che cerca una buona strada per continuare ad operare, più che apportare elementi diversi per avere risultati diversi  risulta (come sottolineava Jung) di fondamentale importanza vedere la medesima cosa in modo diverso.

Questo tipo di risultato implica il poter sfruttare le influenze inconsce a proprio vantaggio e per fare questo sono molto importanti due concetti:
  1. Ripetizione variata
  2. Incertezza
La prima si ottiene portando la percezione nel presente in modo da utilizzarla per aggiungere nuovi piccoli elementi alle proprie abitudini comportamentali.

La seconda richiede lo sforzo di dominare l’incertezza senza doverla sfumare in un’accelerazione continua delle proprie vite. L’incertezza richiede il tempo lento dell’assimiliazione, per poter essere corretta e riassorbita diversamente.

Entrambi i concetti vanno a coincidere con le difficoltà sociali di assumere su di se con decisione i propri desideri, i quali risultano occlusi dall’orientamento alla soddisfazione attraverso gli oggetti, oppure sostituiti dal capriccio che risulta essere il modo attraverso il quale il soggetto abolisce la propria responsabilità nei confronti del desiderio.
 
Ma fare esperienza del desiderio connette al senso di perdita, a quel vissuto di allentamento da alcune cose, o da qualcuno, che spesso inasprisce la lotta interiore; non la morte reale, ma lo sperimentare la perdita di ciò che nevroticamente si custodisce per raggiungere altro.

Basti pensare come sia facile dire alle persone che stanno male la frase “mi spiace vederti così”, quasi che l’esperienza del disagio generatore di un vuoto interno sia qualcosa da allontanare e basta. Non a caso sono proprio gli oggetti a promettere di sanare le mancanze, da quelli più a buon mercato a quelli più raffinati.

L’oggetto rinuncia ad essere espressione di qualcosa in relazione a qualcos’altro, e si afferma come idolo che sostituisce la vacuità della gestione interiore.

Proprio il senso del benessere svilito dalla titolarità nei confronti del proprio desiderio epura quei lati che, in fondo, contraddistinguono i desideri che non risultano addomesticabili nel senso di un equiparazione sociale, che non possono essere figli di una misura universale, ma seguono la storia e il bisogno del soggetto.

In questa prospettiva anche la manifestazione dell’Olocausto deve essere vista come la prima rappresentazione di tale bisogno emancipatorio e, in una modalità del tutto fuorviante, di espressione spasmodica dell’appagamento attraverso l’oggetto con conseguente eliminazione di ciò che ostacola il raggiungimento del godimento assoluto alla luce delle proprie convinzioni sul mondo.

Proprio da quel momento storico si è configurata e stabilizzata la lotta interiore verso il rifiuto del vuoto, dell’assenza, e della sostituzione del desiderio come adorazione dell’oggetto.

Pensiamo alla grande disillusione di Giacomo Leopardi davanti alla "vanità del tutto". Attraverso la disillusione scopre un modo per dare senso alla bellezza del mondo:

[...] siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.

(G. Leopardi, La Ginestra)
Dove "l’umana compagnia" è l'unica presenza reale, la presenza di chi è in possesso del linguaggio, simile al profumo della ginestra, e che assomiglia a quella vitalità che malgrado tutto continua a profluire, a respirare, ad esalare dal nostro stato umano.

Il coraggio di contenere l’ansietà connessa al desiderio di portare l’Elmo assume dunque la configurazione di un bisogno di rilettura del vuoto, della potenza della morte e dell’abbandono, riconoscendo proprio in tali esperienze le possibilità rigenerative della nostra Anima.

L’Elmo come capacità di attraversare l’invisibile, un morire alle proprie abitudini e insieme, il desiderio di toccare le ferite di abbandono; guardarle, tenerle vicine, per compiere si il gesto di riconciliazione con la vita, come pure l’accettazione di una discesa nell’arena del mondo per lasciare che questo ci informi sul senso della vita.

Il vento spira e bisogna lasciarsi sollevare affinché il respiro dell’Universo possa dialogare con il nostro.


Letture correlate:
IL MITO E LA SUA FORZA RIGENERATRICE
IL MITO DI MEDUSA
2 Comments
Francesca
28/8/2019 14:31:36

Veramente bellissimo questo scritto. In questo momento lo sento molto cucito addosso a ciò che sto attraversando e mi è di grande aiuto . Grazie

Reply
Anna Pancallo
2/9/2019 21:57:57

È importante che il lavoro terapeutico possa sostenere il vissuto interiore degli individui indicando strade realmente percorribili in linea con la complessità dei vissuti umani.
Grazie per suo commento.

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    La Dr.ssa Anna Pancallo, psicologa-psicoterapeuta è iscritta all’Albo Regionale Veneto, è specializzata in Psicoterapia della Gestalt, titolo conseguito presso la Fondazione Italiana Gestalt di Roma.

 Svolge l’attività dal 1993 e opera negli studi di Treviso e Mantova.

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