Lo sguardo disegna sempre qualcosa in rapporto a ciò che si trova davanti, in genere si ritiene che ciò che guardiamo sia passivo mentre noi nell'osservare rimaniamo attivi. In realtà lo sguardo crea sempre un incontro, l'occhio percepisce l'esterno, poi deve dare un senso a questo qualcosa che ha intercettato. Gli occhi rappresentano qualcosa di più della semplice percezione ottica, pensiamo ad esempio a come uno stesso luogo visitato in due momenti differenti appaia molto diverso e come questo risulti essere legato ad un nostro cambiamento interiore. Quando siamo innamorati la vista della persona amata ha una pienezza straordinaria, questo tipo di visione che viene prima delle parole non dipende dalla semplice reazione ad uno stimolo esterno. Più che un vedere è un guardare. Guardare è una scelta, riconoscere quello che è alla portata della nostra storia, del nostro bagaglio culturale, della nostra esperienza. Cosa guardiamo dunque? Il rapporto che esiste tra noi e le cose, tra noi e il mondo, una visione attiva dove le cose girano attorno al nostro senso della vita. Anche le fotografie non sono semplici riproduzioni, implicano la scelta di un punto di vista del fotografo, questo aspetto rimane un dato impercettibile ma in realtà è un elemento molto possente. Attraverso una foto possiamo persino ricavare un po' della visione del mondo del fotografo, pensiamo alle straordinarie immagini di guerra di Robert Capa oppure ai ritratti in bianco e nero di Richard Avedon e tanti altri, sono singolari e riflettono qualcosa che porta in primo piano la visione del mondo di chi fotografa. Ciò che ci interessa sottolineare con questo tipo di riflessioni sta in questo concetto: l'IMMAGINE PUÒ SOPRAVVIVERE A CIÒ CHE RAPPRESENTA poiché ferma qualcosa e lo evidenzia. Questo fa sì che il nostro presente, passato e futuro, ne risultino influenzati, possono cioè prendere a pretesto quell'immagine per ridefinire una lettura. Non esiste un presente fuori da ciò che io ritaglio e dunque anche il passato risulta essere una serie di informazioni su ciò che ho imparato nella vita, pensiamo a noi a cinque anni e ci sembra di essere stati in un modo o nell’altro, è il risultato di ciò che abbiamo scelto di guardare, scelta facilmente inconscia, pur sempre una scelta. Oggi assistiamo ad un aumento del sentimento d’invidia, chiediamoci perché? È una questione di sguardi: cosa ci rende invidiabili se non il fatto di essere guardati? È glamour per usare una parola nota. Essere invidiati è una forma solitaria di rassicurazione. Dipende strettamente dal fatto di non condividere la propria esistenza con chi ci invidia. Veniamo osservati con interesse, ma non osserviamo con interesse; se lo facciamo, diventeremmo meno invidiabili. Lo sguardo di chi viene invidiato è uno sguardo al di là degli altri, deve puntare a questo per essere glamour. Tale modalità risiede nelle persone famose ma anche in noi che attraverso il potente mondo interconnesso del web porgiamo noi stessi agli altri, diveniamo prodotto appetibile per i tanti che ci guardano. Pensiamo alla famosa foto di Marilyn Monroe di Andy Warhol che è entrata nel nostro immaginario, tutti conosciamo Marilyn e immaginiamo cose su di lei, vediamo come è stata realizzata. Warhol comincia ad occuparsi della Monroe già nell'agosto del 1962, subito dopo la sua tragica scomparsa. Molto prima di chiunque altro e degli stessi mass media americani, l'artista intuisce l'alto valore simbolico della vita e della violenta morte dell’attrice, contribuendo lui stesso a crearne un'icona che rimarrà nella leggenda. Come d'abitudine Warhol non crea e inventa nulla, ma ricerca nell'immenso archivio di immagini disponibili tra giornali, pubblicità, televisione immagini che sono già note all'immaginario collettivo. In questo caso il punto di partenza è costituito da una nota foto di Gene Korman scattata in occasione della campagna promozionale per il film Niagara del 1953, in cui il suo personaggio muore tragicamente. La fotografia di Korman viene manipolata da Andy Warhol isolando il volto dell'attrice e portandolo in primo piano, come per effetto di una zoomata, al fine di valorizzarne lo sguardo ammaliante, la bocca sensuale e l'acconciatura da star degli anni '50. L'immagine è il prodotto artificiale di un montaggio meccanico di zone di colori accostate con l'approssimazione tipica dei prodotti a basso costo e a bassa definizione. Il risultato finale, come negli analoghi ritratti di Liz Taylor, Marlon Brando, Jaqueline Kennedy e Mao, è una "maschera", una specie di cartoon che semplificando i caratteri del personaggio lo rende immediatamente riconoscibile e consumabile dal pubblico. L'occhio fotografa dunque Marilyn attraverso questa immagine, è a lei che rispondiamo, esprimiamo i nostri punti di vista e i nostri sentimenti, in rapporto all'attrice. In altre parole definiamo una nostra visione di lei attraverso ciò che Warhol vuole che noi vediamo, accade così anche per molto altro, basta pensare a come i computer possono manipolare le nostre foto e abituarci a guardare ciò che abbiamo scelto di guardare. È bello da una parte, al tempo stesso, tutto questo allontana le persone dalla propria natura e dal lento cammino di accettazione della medesima. Esiste dunque un doppio sguardo? Quando il mondo interiore e le ferite della storia personale rimangono inconsce, dunque mai elaborate come tali, impediscono la capacità di discernimento e di giudizio e facilmente approdano a ideologie e a mitomanie che guardate in trasparenza rivelano un'oscura natura di reazione alle frustrazioni personali. Per esprimersi si avvalgono di interpretazioni del mondo che possono venire ben argomentate perché il pensiero, anche se ha staccato il contatto con la verità più ampia e profonda della psiche, può continuare a funzionare in modo coerente dal punto di vista logico. Un postulato fasullo sulla natura delle cose, che elude e nasconde la complessità della verità umana e le ferite personali, può servirsi della logica del pensiero oppure dell'attrattiva dell'emozione immediata per avallare se stesso in modo apparentemente convincente. Come dire che ad un primo sguardo non si nota nulla di strano ma il nostro guardare è catturato da qualcosa di inspiegabile, che non riesce a definire completamente. È il caso dello sguardo sulla patologia anoressica, le persone che ne soffrono compensano il disagio evidente con una razionalità brillante, possono parlare di cibo con disinvoltura perché questo consente al pensiero di seguire una traiettoria che evita il contatto con le reali ragioni del disagio. Lo sguardo viene deviato, se si mantiene lo sguardo fermo sulla realtà di questa situazione si rischia di rimanerne pietrificati. Bisogna aguzzare la vista per cercare quei punti di fuga di quel guardare a vuoto in cui si è abituati a stare ma dove i nostri sentimenti soffrono e si perdono, non è celebrando al massimo l’estroversione (rappresentazione oggettiva della realtà) che si risolve il problema. Questa visione nega l'importanza del doppio, necessaria alla stabilità del mondo e delle relazioni, quasi impossibile da tollerare quando è presente una patologia. [...] A volte le contraddizioni introdotte dal contatto con l'altro sono in radicale contrasto con il proprio percorso individuativo e allora per non spezzare se stessi bisogna spezzare il legame: quello specifico certo, ma non l'idea stessa di legame e la ricarica di legami più sani. Riprendersi lo sguardo è possibile, avviene nel momento del ritiro di ciò che trasferiamo sugli altri, è riprendere su di se le cose difficili e andare oltre, l’inizio di una nuova coesione che permette all'interiorità di ognuno di essere rispettata e vissuta nel suo pieno valore. Letture correlate:
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