Alcuni quesiti si pongono all’interno dell’incessante scambio corpo-mente. Uno di questi riguarda il cambiamento del corpo nel corso dei secoli dove, la progressiva industrializzazione della società, culminata nella moderna era della tecnica, ha portato il corpo a venire progressivamente percepito come un oggetto. La “gestione sana” del corpo ricalca molto questa visione che, invece, risulta molto più complessa sul piano esperenziale. Se l’invecchiamento è come un killer che coglie impreparato l’individuo lo si deve ad una cattiva gestione del confronto corpo-mente, generalmente letto più come un modo per reprimere i meccanismi di uno dei due linguaggi, piuttosto che una forma di rieducazione da apprendere e coltivare. Anche la crisi della medicina ricalca questo aspetto e la malattia viene letta come qualcosa di autonomo dal soggetto, il quale non viene incoraggiato a guardare il suo male in profondità. In questo scenario l’ascolto del malessere, da parte del paziente medesimo, deve contrastare un vissuto di colpa, qualcosa che deturpa il suo ideale performante e abbrutisce il proprio essere. Un vissuto che si manifesta prepotentemente nel disagio ma che segnala una difficoltà già presente nel percepire i propri limiti. Quando si vive evitando la dialettica del soggetto corpo-mente si finisce per riconoscersi in un ingranaggio biomeccanico, solamente tecnico, che per essere sistemato necessita di un sapere che contempla l’uomo con i suoi vissuti. Non è immediato portarsi verso un’articolazione dei linguaggi mantenendo un confronto con la realtà, molte strade promettono risultati che poi si rivelano blandi mentre risulta importante entrare nel concetto di rieducazione. Oggi abbiamo sicuramente accesso a molte informazioni ma questo non basta a riconoscere le spie presenti nel dialogo corpo-mente che illuminano la strada alla ricerca di risposte efficaci e in grado di mantenere una qualità di vita nel tempo. L’afflusso dei malati verso pratiche alternative testimonia il disagio della medicina nei suoi vari ambiti, come il blocco che il supporto psicologico non riesce a dare quando si focalizza esclusivamente sulla risoluzione del disagio. La gestione del male, è inutile nasconderlo, è divenuta particolarmente complessa: da una parte la visione di una tecnologia che scommette su tecniche d’avanguardia, dall’altra l’approccio relazionale che punta a dare una forma ai problemi collegandoli a ciò che il soggetto vive. Il mondo non scopre mai nulla di completamente nuovo, anche quando ciò che si è realizzato appare come innovativo è pur sempre stato immaginato molto prima. Infatti, anche se il mondo contemporaneo testimonia lo sradicamento delle antiche matrici di senso, resiste con cocciutaggine il sensibile. E questo sensibile s’interroga sulla nostra essenza di esseri umani ponendo quesiti e cercando vie per coordinare la complessità che abitiamo, per poterla dirigere e convogliare in vari modi, così da rimanere ancorati al flusso della vita. Affinché il sensibile possa mantenere la propria potenza espressiva è necessario che l’ascolto perda la connotazione di protesi dell’ego per potersi dirigere verso un’accoglienza che contrasti più e più volte la fissità dello sguardo circa la propria, o altrui, imperfezione, imparando a darle una connotazione maggiormente funzionale nel senso linguistico del termine, di ciò che ha una funzione nella struttura del soggetto, in questo caso, senza dubbio, vitale per l’esistenza del soggetto.
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