Ogni sperimentazione porta con se varie possibilità e, allo stesso tempo, ciò che diviene traducibile coinvolge il riconoscimento di un limite che qualifichi l’esperienza stessa. Questi aspetti sono il frutto di un’insieme che è sintesi di un interno-esterno scaturito dal riconoscere ciò che si unisce e ciò che risulta separato, per divenire, così, parte finale di uno scambio che sarà integrato in Sé stessi. Ogni esperienza apre in questo modo a diverse possibilità, ma sono solamente quelle traducibili per l’interno a risultare reali ai fini di una interiorizzazione, conferendo una fondamentale importanza alla propria capacità di utilizzare la sperimentazione come elemento di supporto interno alla propria evoluzione. “[...] attraverso il confine e per mezzo della sua attività di traduzione, ciò che è esterno al sistema pensiero diventa interno ad esso. Ad opera di questo filtro, che è il confine, ciò che è esterno viene accolto e trasformato in materiale omogeneo alla struttura interna, attuando così l’identità progressiva tra oggetto reale ed oggetto della conoscenza.” (P. A. Cavalieri, “Dal Campo al Confine di Contatto”, in Psicoterapia della Gestalt, Ed. F. Angeli, p.46) Abbiamo bisogno dunque di un filtro per fare esperienza del mondo e, la bisaccia di Perseo, rappresenta la metafora di tale filtro in grado di collegare l’esperienza esterna a qualcosa d’interno. Per comprendere meglio questo passaggio è necessario ricollegarsi all’idea del mondo dei greci antichi, dove i miti erano un modo per rappresentare il funzionamento dell’Anima. Il Κιβισις (bisaccia) era per loro un oggetto dal valore significativo, un contenitore, accessorio, che racchiude qualcosa da proteggere e dal contenuto riservato come lo sono i frutti di un’esperienza. Qualcosa che consente un contenimento e qualcosa che permette di avvicinare il nuovo. In questo modo la conoscenza del confine risulta concreta anche per i nostri sensi. Se riconosciamo che l’esperienza di riconoscimento/bisogno di un limite avviene attraverso la nostra capacità sensoriale e, di conseguenza, negli organi di risposta motoria, allora è possibile comprendere che ciò è un fatto concreto dal quale possiamo trarre l’idea che il confine è anche un luogo dove il Sé sperimenta distinguendo ciò che gli appartiene da ciò che gli è estraneo. Un luogo funzionale all’esperienza, dove tutto quello che rimane in noi, come qualcosa di nuovo, è perché è stato assorbito in virtù di una delimitazione che produce, però, un contatto. L’elemento fondamentale di questa riflessione poggia sul fatto che il confine non è inteso qui solo come qualcosa che separa, ma, piuttosto, un contesto emotivo che pone in relazione due parti tra di loro, in grado di far nascere un nuovo significato per definire nuove situazioni. Una nuova dimensione, dove ha luogo un’esperienza della realtà e dove si struttura una forma di evoluzione su cui stare per creare - adattamento o non adattamento, armonia o contrasto, e così via - dando luogo alla base che utilizziamo per mettere in atto la nostra vita emotiva. A questo punto possiamo distinguere tra due aspetti: il confine di contatto, che è ciò che si mette in gioco nel rapporto con l’ambiente, ed il confine dell’Io, che riguarda quello che mi permetto come esperienza interiore. Perseo nell’adagiare la testa di Medusa sul letto di foglie compie una piccola rivoluzione personale, ovvero, pesca dentro di se un comportamento libero dalle forme che lo hanno vincolato fino a quel momento, adagia la testa, la tratta con cura, si lascia trasportare da quello che prova liberandosi dai vincoli di forme emotive precedentemente sperimentate, e così facendo, si libera dalla sofferenza. Quello che possiamo notare in questo passaggio del mito è proprio la sua prospettiva in divenire, ovvero, ciò che fino ad ora era stato vissuto in una determinata maniera conosce una mutazione grazie alla creazione di una porta aperta su un nuovo mondo che consente, permettendo di orientarsi in uno spazio nuovo, di vedere altro e renderlo utile a se stessi. “Le persone si incontrano per rinascere. Nascere non basta mai a nessuno.” (F. Arminio, ”Resteranno i Canti”, Ed. Bompiani 2014) Il confine quindi concepito come luogo di una rinascita che prende forma, dove si palesa un’attenzione al disagio in un modo diverso, un luogo della prova che stordisce e stimola, sfociando nella crescita evolutiva; uno stato dov’è possibile accettare che il contatto è come un’avventura che ci esporrà, certamente al timore, ma anche ad un coraggio acquisito nella lotta, dove si situa l’urto dato dal nuovo. Invece, quando il contatto con tale limite o confine non si stabilirà, si aprirà un vuoto prodotto dal fatto di riconoscere la mancanza di uno spazio adeguato che permetta uno scambio, quindi una interazione, ed il conseguente movimento generatore. In ogni modo, anche se tale vuoto sembra fatto di assenza, potrebbe non essere così. La fisica oggi ipotizza che il vuoto stabilisca comunque una relazione tra le cose, una connessione non locale tra elementi in gioco (entanglement quantistico); un ribollire di particelle che sono in contatto tra di loro, definite in modi diversi dagli scienziati, ma che vogliono dire la medesima cosa: l’esistenza di una matrice comune dell’Universo che crea sempre, anche se ciò non afferra la nostra consapevolezza, un plancton siderale, un alimento che esiste e che può essere colto. Come abbiamo visto tutto parte dalla coscienza, quella funzione biologica critica che ci permette di conoscere il dolore e la gioia, la sofferenza e il piacere, di sentire imbarazzo e orgoglio, di essere addolorati per un amore perduto o per una vita perduta. Il confine di contatto è dato dal modo in cui percepiamo le nostre emozioni, da come ne facciamo esperienza, da come diventano nostro patrimonio interno. Perseo stabilisce una connessione con la testa di Medusa che diviene così un elemento della sua esperienza. La Bisaccia, come elemento, testimonia la necessità di una vicinanza. Tramite questo oggetto il nostro eroe porta con se il nuovo, un nuovo che stimola anche se espone a dei disagi, come tutte le cose poco sperimentate, ma che rappresenta un luogo metaforico da affrontare, un passaggio necessario affinché il nuovo possa essere acquisito: il “vuoto fertile”. “Il vuoto fertile è la metafora esistenziale che rappresenta il rinunciare al sostegno di ciò che è presente e familiare, per alimentare la fiducia nella forza che la vita ha di produrre nuove possibilità e prospettive. L’acrobata che si lancia da un trapezio all’altro sa quando deve lasciarsi andare. Egli calibra il suo peso con precisione e per un istante non ha altro appoggio che la sua propria forza. Noi seguiamo con il fiato sospeso la curva del suo salto mortale e lo amiamo, perché rischia di affrontare quell’istante in cui non c’è sostegno.” (E. M. Polster, “Terapia della Gestalt Integrata”, Ed. Giuffrè, 1986, pp.116-117) La vita ci pone davanti a delle tappe. Nasciamo in una famiglia che ha già le sue peculiarità e veniamo immessi in un sistema di relazioni che ci attribuisce subito un significato. Man mano che cresciamo, poi, apparterremo ad un sistema sociale più ampio con le sue proprie caratteristiche. Con entrambi, famiglia e ambiente, dobbiamo trovare il modo di stabilire una relazione connettiva utile, in una prospettiva in continua evoluzione. L’aspetto di maggiore complessità nella società contemporanea sembra proprio essere l’assimilazione del nuovo che si presenta costantemente. La mente è oggi stretta in modelli di riferimento piuttosto collaudati sulla spinta di una mentalizzazione, veloce e affermata, che induce ad abbassare la propensione circa una reale assimilazione del nuovo, il quale necessita, diversamente, di un proprio tempo. Spesso tendiamo a dimenticare che il benessere futuro viaggia sotto traccia finché non ha raggiunto la necessaria maturazione, ma, in una società che finalizza il comportamento ai risultati pragmatici in modo continuativo, basandosi sulla velocità come sulla prestazione, si tende a scartare a priori tale processo evolutivo. Questi aspetti peculiari della società attuale, connessi ad una sperimentazione esistenziale necessaria, comportano la perdita della padronanza. Tale sottrazione è però fondamentale per essere spinti ad incontrare in modo nuovo quello che riteniamo di dover conoscere. “Cane nero, cielo bianco, campo rosso di trifogli. Cane rosso, cielo nero, campo bianco se li cogli.” (Toti Scialoja, “Versi del senso perso”, Ed. Einaudi, 2014) Nel suo linguaggio poetico, Scialoja, ci comunica come la parola possa trasformarsi in qualcosa di magicamente espressivo, non diversamente da ciò che l’individuo compie quando assimila il nuovo giocando su associazioni diverse. È come vedere qualcosa per la prima volta perché le nuove associazioni Cane Nero/Cielo Bianco, Cane Rosso/Cielo Nero, ci portano a percepire in modo originale e diverso il consueto, come un elemento di discontinuità nell’omogeneità dello sguardo, dunque dell’abitudine. I versi poetici, come anche le filastrocche, o le metafore nel mito, spostano l’ordine dei significati ed invitano a guardare in un modo nuovo, ad aprirsi attraverso una suggestione visiva, a ciò che prima non era riconoscibile. Questa meraviglia fa capolino dentro la nostra esperienza tutte le volte che il contatto con il limite interiore modifica la visione della realtà. Il nuovo, infatti, arriva se ci permettiamo una nuova esperienza e accettiamo che non sappiamo bene dove ci possa condurre. Del resto i tabù relativi al comportamento iniziano presto e divengono dei veri e propri divieti dell’espressione, potenti nell’inibire lo stare connessi con la nostra interiorità e con ciò che stiamo sperimentando. Forzarci ad uscire dai confini costruitisi in noi stessi fa paura poiché spinge verso una nuova identità che, inevitabilmente, minaccia quella che conosciamo e che ci appare sicura. L’identità si evolve mutando i confini, ma il confine si ricrea sempre in modo nuovo. Perseo, attraverso la Bisaccia, celebra l’importanza del confine nell’esperienza affinché possa diventare patrimonio sul quale poggiare la propria sicurezza rigenerata.
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