Un recente articolo apparso sull’inserto IO DONNA del Corriere della Sera (n.52 - dicembre 2022) s’interroga sull’affezione verso gli oroscopi portando l’attenzione sul fatto che nove italiani su dieci seguono ciò che viene negli stessi indagato, e, addirittura, un numero sempre più crescente di applicazioni riguardanti i temi natali utilizzano i dati della Nasa. All’interno di questa finestra di approfondimento riguardante l’astrologia troviamo alcuni dati che portano a delle riflessioni. Pare infatti che le domande su se stessi, che una volta si ponevano attraverso un linguaggio psicoanalitico, nell’orientamento odierno tendono ad essere poste attraverso l’astrologia che, evidentemente, risponde in maniera più diretta alla mancanza di certezza di cui è intriso il vivere quotidiano. L’astrologia è considerata dunque da più parti uno strumento di guarigione, che, secondo diversi astrologi, dovrebbe collaborare con la psicologia. Non si vuole in questa riflessione porsi questo quesito, piuttosto elaborare alcune considerazioni per ciò che concerne l’approccio all’interiorità. Anche un filosofo contemporaneo molto letto come Byung-Chul Han, riflette in vario modo sulle modalità prevalenti in chiave relazionale all’interno della società odierna, sottolineando come le persone rifuggano dall’incertezza che lo scambio con l’altro può causare. In un testo del 2021, lo stesso filosofo, parla dell’andare ovunque senza fare esperienza e di come l’incontro con l’altro si rifletta in una replica di ciò che è già presente dentro di se come autoriferimento, mentre l’approccio relazionale, inteso come elemento di trasformazione attraverso il “dolore”, resta bandito: è l’uguale da se ad essere assurto ad elemento cardine di stabilità interna. In sintesi, si tende a rifuggire la comprensione delle cose perché genera dolore. “Nella vicinanza è inscritta la lontananza quale sua controparte dialettica. L’abolizione della lontananza non genera maggiore vicinanza, bensì la distrugge. Al posto della vicinanza sorge una totale assenza di distanza. Vicinanza e lontananza sono intessute l’una nell’altra, una tensione dialettica le tiene assieme. Questa consiste nel fatto che le cose sono animate proprio dal loro opposto, dall’Altro rispetto a loro stesse. A una mera positività, come l’assenza di distanza, fa difetto proprio questa energia vitale. La vicinanza e la lontananza stanno fra loro in un rapporto di mediazione dialettica, come l’Identico e l’Altro. Per questo non c’è vitalità ne’ nell’assenza di distanza né nell’Uguale. L’assenza di distanza digitale elimina ogni forma di gioco fra vicinanza e lontananza.Tutto è ugualmente vicino e ugualmente lontano.” (B. C. Han, “L’Espulsione dell’Altro”, Ed. Nottetempo MI 2021, p.13-14) Queste parole sottolineano come sia il meccanismo di scambio ad essere stato modificato in ragione dell’evitare il dolore e quindi la polarità. L’alternarsi di emozioni diverse non risponde ad una logica produttiva che vede nella risposta univoca un segno di stabilità. Già Gunther Anders in un testo del 2003 (“L’Uomo è antiquato - Considerazioni sull’anima dell’epoca della seconda rivoluzione industriale”, Ed. Bollati Boringhieri), parla degli esseri umani come “analfabeti dell’angoscia” e dice, che dopo la seconda guerra mondiale, a suo avviso, il bisogno crescente di una “good old life” ha di fatto stabilizzato l’idea che sia normale accantonarla. Viene in mente anche José Saramago in “Cecità” dove descrive una città, che a causa di una pandemia è divenuta cieca, dove mantiene la vista solo la moglie di un medico a cui Saramago fa dire queste parole: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi, che, pur vedendo, non vedono” (J. Saramago, “Cecità”, Ed. Feltrinelli) Ancora più incisivo risulta essere il momento in cui la moglie del medico entra in chiesa e scopre che tutte le statue sono velate tranne Santa Lucia che offre i suoi occhi su un vassoio (Ibid. p. 288). Le metafore di Saramago portano in contatto con l’utilizzo del simbolo come elemento di riflessione, come fattore cardine di un’indagine che conduce l’attenzione sul potere creativo del simbolico. Ecco, forse, potremmo guardare all’attenzione riservata all’astrologia come espressione di questo bisogno: non basta costruire soluzioni ma sapere in che modo si guarda quello che si vuole affrontare. Uno dei decani degli studi astrologici come Marco Pesatori, in uno dei suoi testi più letti, “Astrologia per Intellettuali” (Ed. Neri Pozza, VI 2008), s’immerge nella potenza creatrice del linguaggio simbolico descrivendo grandi personaggi della cultura, e associando la loro produzione a tratti del carattere. A proposito del poeta Lautréamont, nato il 4 Aprile del 1846, e dei suoi canti di Maldoror dice: “È poesia incendiaria che avvolge come una fiamma che ancora non è possibile comandare. E all’Ariete appartengono una serie di immensi poeti il cui tema è la lotta tra la luce e il buio, portata avanti con gli strumenti di una forza quasi brutale, che scuote il lettore e lo investe di bruciature lancinanti, istantanee, sbilanciate, aggressive. Non si può iniziare questo cammino attraverso le dodici tappe del cerchio zodiacale che con loro, i poeti: la nostra epoca sembra volerli relegare nel marginale, negli angoli nascosti perché incapace ormai di confrontarsi con qualunque barlume di innocenza e di chiarore, con quella verità essenziale e lampante che solo la poesia sa mostrare.” (Ibid. p.17) “Abbandona i pensieri che rendono il tuo cuore vuoto come un deserto; bruciano più del fuoco” (Lautremont, “I Canti di Maldoror”, Ed. Feltrinelli, MI 2011) E ancora parlando di Proust, nato il 10 Luglio, sottolinea la capacità di penetrare la coscienza: “Il vero in sé, il reale non è mai per il Cancro qualcosa di oggettivo, valido anche al di là di se stessi. Il reale è più volentieri inganno del presente, necessità di altri inganni, qualcosa che può e deve essere surrogato dall’immaginazione per poter essere supportato” (Ibid p.132) “Questo esercizio, sebbene silenzioso, era pur sempre una conversazione e non una meditazione; la mia solitudine, un vivere in un salotto mentale dove non la mia persona, ma interlocutori immaginari governavano le mie parole e dove - nel formulare, in luogo di pensieri ch’io credessi veri, quelli che mi venivano senza fatica, senza regressione dal fuori verso il dentro - provavo lo stesso genere affatto passivo di piacere che trae dal rimanere immobile una persona appesantita da una cattiva digestione.” (M. Proust, “All’Ombra delle Fanciulle in Fiore” in “Alla Ricerca del Tempo Perduto” vol. II, Ed. Mondadori, p.700) Di fatto queste riflessioni sono un modo per spostare l’attenzione dal materiale al simbolico, rivendicare l’importanza di una visione creativa dell’uomo e dell’universo, descrivere come il carattere si nutra prepotentemente di simboli che lo plasmano e ne delineano le varie sfumature. In un brillante libro, Richard Tarnas (“Cosmo e Psiche”, Ed. Mediterranee, Roma 2012), docente di filosofia e psicologia a San Francisco e Santa Barbara, si pone la domanda di come esista all’oggi un rebus nell’umanità, sottolineato da molti studiosi, ovvero quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione per affrontare tale punto di domanda? “Non è necessario elencare i tanti formidabili e incalzanti problemi - globali e locali, sociali, politici, economici, ecologici - che oggi il mondo ha davanti. Sono evidenti in ogni titolo nei nostri quotidiani e riviste, e nei rapporti annuali sullo stato del pianeta. Il grande enigma della nostra situazione è nel fatto che, pur disponendo di risorse senza precedenti per affrontarli, è come se un contesto più vasto e profondo, un vincolo invisibile, ci negasse la capacità di risolverli. Di che si tratta? Qualcosa di essenziale sembra mancare alla nostra intelligenza, qualche fattore o serie di fattori potente ma intangibile. [...] Quali sono le maggiori difficoltà di fondo che la mente e lo spirito umani devono affrontare nella nostra era? [...] In primo luogo il disorientamento e la fallacia metafisici che pervadono l’esperienza umana contemporanea [...] In secondo luogo, il profondo senso di alienazione che colpisce il moderno Sé [...] mi riferisco all’estraniamento spirituale della psiche [...] in terzo luogo, il bisogno fondamentale, da parte sia degli individui che della società, di una penetrazione più profonda in quelle forze e tendenze inconsce, creative e distruttive, che svolgono un ruolo così importante nel plasmare l’esistenza e la storia umane, e la vita del pianeta.” (Ibid. p.13-14) Un aspetto centrale della sua indagine sta nell’aver focalizzato l’attenzione sul contrasto esistente tra una visione fortemente illuminista della vita dell’individuo, definita attraverso i canoni scientifico materialisti, e una prospettiva romantica che domina la visione interiore legata ai desideri. Le domande su cui s’interroga Tarnas, ci riportano al ruolo del simbolico nell’espressione umana. La sua lunga dissertazione partendo dal Rinascimento e da Pico della Mirandola vogliono disegnare un grande arco storico dove l’uomo si è posto al centro dell’Universo fino a ripetersi su se stesso, non ammettendo altri interlocutori. Anche laddove il soggetto è fortemente indagato spesso deve essere ricondotto ad una visione oggettiva immediatamente verificabile per essere valutata come adeguata, e questo può essere considerato il limite di alcune visioni psicologiche. Questa postura tende a tagliare fuori quell’attiva partecipazione che le nostre immagini interiori esercitano sugli eventi e sul mondo e sul come si attiva un mutuo scambio. La tendenza è quella di leggere gli eventi nella consapevolezza prima di entrarci in contatto, l’oggetto deve venire esplicitato senza che vengano aggiunte quelle qualità soggettive intrinsecamente presenti nello sguardo di chi si posa sull’oggetto medesimo. Questa modalità è considerata aderente alla realtà e compatibile con una visione scientifica, ma esiste un lavoro di mediazione incessante, che si compie tra il mondo esterno e quello interno, che non è possibile sorvolare. Il tema ci porta al Pensiero Magico, cioè a quella forza propulsiva e vitale attraverso la quale la Psiche si nutre del mondo e lo ridisegna. “Se esiste una legge di simpatia cosmica che connette l’infinitamente piccolo, al l’infinitamente grande, il particolare all’universale, in una trama di reciproche, fittissime influenze, allora, per chi pensa in termini magici, lo spostamento di significato [...] rivela un potere segreto che emana da tutte le cose, ed è inscritto sin dalle origini nell’anatomia del mondo.” (G. Guidorizzi,”La Trama Segreta del Mondo”, ed. Il Mulino, Bo 2015) In una realtà rigidamente determinata dai contenuti lineari si tende a lasciare poco spazio ad un linguaggio che utilizza le metafore, cioè che nomina una realtà per rendere visibile anche un’altra. Statistiche, rischi, profitti e costi, dominano oggigiorno la realtà delle vite dei singoli. La ricerca della competenza ha fatto si che gli individui non siano più importanti per la loro storia personale ma per la preparazione che hanno accumulato. Nella metafora invece si esercita stabilmente il meccanismo della similarità e non si tratta di spostare una parola sull’altra ma di creare una nuova realtà linguistica in cui qualcosa del vecchio e qualcosa del nuovo significato permangono legati tra loro costruendo un nesso. La psiche davanti ad una realtà scaturita da questo linguaggio si allena a cercare connessioni possibili tra oggettivo e soggettivo, aprendo lo sguardo ad una visione diversa, apparentemente indecifrabile, poi via via sempre più consona. Se il pensiero simbolico ci consente di esprimere la realtà attraverso i simboli, ci fornisce anche le chiavi per una visione più ampia della realtà, dove l’accostamento di concetti apparentemente lontani costringe la mente ad un esercizio che la obbliga a dover mettere le cose assieme. Attraverso il simbolico passa un’informazione non codificata che stimola verso un nuovo elemento di conoscenza. “Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo” (P. A. Florenskij, “Il valore magico della parola”, Ed. Medusa, Na 2001)
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