L’illustre studioso tedesco di letteratura greca Walter Otto, particolarmente attento a ciò che l’eredità greca ci ha lasciato in termini umani, ci suggerisce come ciò che è proprio dell’uomo non si disperda ma continui ad essere presente in un ciclo perpetuo di rinnovamento:“guardiamo al presente, ma dal punto di vista di ciò che è eternamente umano.” Il Prof. Bonazzi, invece, in una sua presentazione del corso “Medusa, simbolo e trasformazione 2021” (Studio Pancallo, vedi il video proposto sotto), sottolineava come per i greci antichi risultasse fondamentale il rapporto con l’azione e la costruzione di una felicità, piuttosto che l’abbandonarsi a momenti di piacere momentaneo, e ci faceva notare come tale passaggio implichi ai nostri giorni una visione dell’umano che tende ad appannarsi, una visione difficile da cogliere.
Come mostra il mito di Medusa, l’uomo al culmine della sua ascesa deve fare i conti con il mostruoso, e, trovandosi davanti all’invisibile che tale incontro produce, imparare a decifrarlo. È così che nell’atto di decrittare un qualsiasi mito non stiamo solo proponendo la nostra visione su qualcosa, ma, piuttosto, stiamo rispolverando e allenando i nessi che questa forma di racconto ha con il nostro modo di fare esperienza della vita. Stiamo, in sostanza, proponendo una visione ed una pratica che possano servire a sviluppare resilienza nelle nostre tappe evolutive. Marie Luise Von Franz, una delle principali collaboratrici di Jung, parla, nei suoi testi, di “miti di creazione”, individuando nella struttura del racconto mitico qualcosa di indissolubilmente legato ai processi della coscienza. “Lo studio dei miti rivela in modo lampante come il risveglio alla coscienza sia tutt’uno alla creazione del mondo.” (M. L. Von Franz, “I miti di creazione”, Ed. Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 21) Cosa s’intenda attraverso tale concetto espresso dalla Von Franz è ben rappresentato nell’evoluzione che Perseo conosce attraverso la sua esperienza nell’incontro con Medusa. Il nostro eroe è un individuo che all’inizio è poco consapevole dei risvolti legati alla propria storia, la sua coscienza si rivela e cresce passo dopo passo. Gli accadimenti repentini, di apparente casualità, rivelano al personaggio passaggi che la sua percezione individuale aveva già formato dentro di sé, ma che era necessario ripercorrere, con lo scopo di riannodare i fili di un vissuto, nella sua storia, con qualcosa che sta dentro, tra le frange dell’esperienza di vita, in grado di esprimersi con una nuova forza vitale, che, evidentemente, si era dispersa. La storia di Perseo riguarda un processo evolutivo che ispira ognuno di noi. “Esser felici vuol dire potersi accorgere di sé stessi senza spavento.” (W. Benjamin, “Strada a senso unico”, Ed. Einaudi, 2006) Per sottolineare la difficoltà ad utilizzare gli insegnamenti passati in maniera efficace, Benjamin coniò pure il concetto di “atrofia della storia”, concetto che racchiude l’importanza di un momento dell’esperienza dove il soggetto può tornare a se stesso e comprendersi. Riproposte attraverso un linguaggio mitico tutte le storie rappresentano il tentativo di unire psiche e materia, considerati aspetti di un unico fenomeno vivente di realizzazione dell’inconscio, attraverso delle tappe che si traducono, a loro volta, in una forma di attualizzazione del sé che permette all’individuo di collegarsi all’universo. Per tale motivo, anche i nostri contributi scritti sul Mito di Medusa perpetuano, in un movimento circolare, un ragionamento rivelatore ed offrono alla psiche del lettore l’opportunità di acquisire maggiore scioltezza riguardo ai passaggi che si celano dietro il racconto mitico. Le ragioni che abbiamo fin qui esplorato, che riguardano il modo in cui facciamo esperienza del mondo, evidenziano come la coscienza assorba il materiale esterno e lo renda utile a se stessa. Inoltre, abbiamo descritto i passaggi che caratterizzano l’incontro con l’altro, come pure il poter dare un significato alla polarità di cui i sentimenti umani sono intrisi. Ben si collega, alla capacità di dare spazio e riconoscimento alla polarità attraverso il mito, il concetto di maschera espresso in modo significativo dalle parole di Giulio Guidorizzi: “Indossare una maschera equivale a varcare la soglia e passare dal sé all’altro; e tuttavia questo altro non è completamente diverso e lontano, perché la sua maschera funziona secondo un ritmo di identità/alterità e la sua funzione non è tanto quella di nascondere quanto quella di rivelare il nascosto. Toglierla non significa tornare a vedere se stessi, quantomeno perché si torna al reale dopo aver attraversato l’immaginario e aver contemplato la realtà con quegli occhi; potremmo dire che lo smascheramento consente di scoprire che, tolta la maschera, ne compare un’altra e che perciò essa rivela la fondamentale dualità dell’essere umano. Maschere umane, maschere divine, maschere animalesche, maschere terrorizzanti; il suo uso (universalmente diffuso in ogni cultura) risponde a una serie di funzioni, alcune di ordine psicologico, altre di ordine antropologico.” (G. Guidorizzi, Prefazione a: J. P. Vernant, “Figure Idoli Maschere”, Ed. Il Saggiatore, 2018) Si comprende con chiarezza, dopo le parole del grecista Guidorizzi, come mai Atena ha bisogno di indossare la maschera di Medusa e perché aiuti Perseo nella sua avventura. Atena è simbolo per eccellenza dell’intelligenza raziocinante che deve riunirsi all’azione data dall’istinto. Per essere completa deve ricorrere a Medusa, che aveva punito senza rendersi conto del potere che hanno in sé, ai fini dell’esperienza, gli errori che si commettono. Per divenire un vero leader la dea ha necessità di riappropriarsi della capacità di riconoscere il valore del disagio delle esperienze problematiche e la loro intrinseca capacità trasformativa. “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, che io non comprendo: il sentiero dell'aquila nell'aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell'uomo in una giovane.” (Proverbio 30, n. 18-19 “Antico testamento”) Il mito greco, come in Perseo e Medusa, descrive un tempo dell’esperienza delle cose possibili nel mondo che la sola logica non può sostenere, ed elenca i vari passaggi emotivi necessari affinché si rafforzi, comunque, come base alla quale alimentarsi. Nel mito si spezza la linea progressiva del tempo a favore della ciclicità dello stesso. Il tempo dell’esperienza attinge alla circolarità, si finisce un’avventura per ricominciare, si ripetono dei passaggi emotivi più e più volte per poterli assimilare. “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine / E finire è cominciare. / La fine è donde partimmo.” (T. S. Eliot,”Quattro quartetti, in poesie ed. Bompiani, p.553) I miti servono a volte per connettersi al mondo, altre al suo rovescio, per disconnettersi, ed elaborare così nuove strade. Sono un luogo nel quale l’uomo può pensarsi - che è possibile lasciare vuoto come un deserto, o riempire d’infinite costruzioni - dove combattere le nostre battaglie intellettuali, un orizzonte dove il pensiero umano gioca la sua partita più interessante: la necessità di essere costantemente rielaborato per essere utile. Un pensiero che lasciato a se stesso, solamente come aspetto storico, perde la sua valenza formativa necessaria al nostro confronto con il mondo, sopratutto ora che il presente vive in un vissuto continuo dell’attimo, preoccupato com’è di incrociare il disagio e la sofferenza. “Di fatto, i greci furono i primi a comprendere che, prima di giocare qualunque partita, vale la pena di stabilire con precisione il campo entro il quale si vuole giocare. Soprattutto, che vale la pena di decidere da che parte stare di quel campo chiamato civiltà. Lo straordinario affannarsi dei greci per tracciare teogonie, genealogie, pantheon di dei e di semidei con le loro storie di guerra e di amore non fu frutto di un diletto fine a se stesso per il semplice gusto di sperimentare curiosi intrecci narrativi. Fu invece il risultato della determinazione nel voler creare una precisa società: prima di fabbricare – prima di poter anche solo pensare di mettere all’opera il logos –, era necessario stabilire con chiarezza e scrupolosità le fondamenta, cioè il mito. Detto ancora più in sintesi: con una lungimiranza che non ha pari nel Mediterraneo, i greci furono i primi a comprendere che prima del “costruire”, è necessario il “creare”. A quel gesto primigenio di maneggiare il mondo per catalogarlo nella sua interezza, gli antichi diedero il nome di “mitico”, τό μυθῶδες. Fu questo il tempo in cui gli uomini si impegnarono a raccontare a parole, attraverso il mito, il mondo per dargli una forma – da qui l’etimologia originaria della parola “mito” quale “discorso performativo” capace di produrre realtà.” (A. Marcolongo, prefazione a “Mito” di J. P. Vernant, ed. TRECCANI p.11) Senza il mito, l’errare dell’uomo alla ricerca di un suo paesaggio interno, sarebbe solo uno sterile girare a vuoto. I nostri antenati, prima di noi, hanno costruito storie meravigliose dalle quali apprendere, per segnare il nostro cammino nel mondo e perché potessimo sentirci vicini ai tanti, diversi da noi, che ci hanno preceduto: trovando similitudine interiore nelle loro vicende umane diamo un senso al nostro tempo e al nostro presente.
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