L’odierna tendenza a relegare l’altro sullo sfondo, come una melodia fissata che non può espandersi in armonie modulate, porta l’individuo ad andare continuamente verso qualcosa di esterno; un movimento incessante che coincide con un’esteriorizzazione continua della propria esistenza, un tempo dell’ordinario scandito dai bisogni dell’attimo. Il nostro tempo individuale è così catturato da ciò che proviene da fuori, come una farfalla attirata dalla luce, generando un’abitudine diffusa che rende difficile un orientamento interiore capace di calibrare i bisogni profondi, o nascosti, che attendono costantemente d’essere soddisfatti. La vita umana si snoda lungo il tempo attraverso un dialogo continuativo con noi stessi. Per spiegare con altre parole possiamo dire che il pensiero umano è catturato dalla temporalità e la realtà psicologica dell’individuo non può situarsi fuori da questa condizione. Ma quali sono le caratteristiche del nostro tempo? Probabilmente ciò che caratterizza maggiormente la contemporaneità è la mobilitazione costante, alla quale, nello stesso momento, fa da contrappeso una sorta di immobilismo individuale che genera stanchezza. Questa contrapposizione determina uno stato di disconnessione abituale che porta ad una certa forma di caos che, comunemente, sintetizziamo con la parola stress. Inoltre, lo stress genera anche una forma di mutamento biologico, attraverso cui il nostro essere crea un adattamento in risposta ai cambiamenti prodotti dall’ambiente. È uno stato, questo, che porta a vivere con urgenza la realtà e a sviluppare sofferenza. Una risposta emotiva e fisica data non necessariamente dalla mancanza di tempo quanto, piuttosto, dal non riuscire ad avere un controllo adeguato su ciò che si muove attorno a noi. Il tempo sembra incalzarci, cosa si è rotto nel dialogo dell’umano con il suo tempo? Il senso di velocità domina il nostro rapporto con il mondo ed ha incrinato lo scambio che permette all’esterno di diventare elemento significativo per ognuno, mentre le numerose e incessanti attività, alle quali si viene sottoposti, rappresentano una routine che distoglie dal dare attenzione a significati più pregnanti. Il continuo susseguirsi di cose da fare crea la difficoltà di un punto di contatto, qualcosa che possa essere in grado di dare un volto al dialogo tra tempo esterno ed interno. L’essere impegnati costantemente è una modalità che funziona come il martello d’un orologio che scandisce ossessivamente urgenze, le quali hanno la caratteristica di tagliare fuori il ritmo dei rapporti umani, rendendo difficile stabilire chi siamo e dove stiamo andando. In questo contesto, essere se stessi richiede una rigenerazione continua, un adeguarsi perpetuo alle circostanze, un diventare perennemente autonomi per essere all’altezza. “Non è più sufficiente nascere e crescere, è oramai indispensabile costruire se stessi di continuo, tenersi in perenne movimento, dare un significato alla vita, puntellare la propria attività con certi valori.” (D. Le Breton, Fuggire da sé, p.12, Ed. Raffaello Cortina, 2016) Un esempio ci è dato dalla diffusa tendenza a camminare. Un’attività socialmente celebrata, che, al di là degli indubbi benefici sulla salute, finisce per risultare una forma di spersonalizzazione. Si cammina per non incontrare nulla, si cammina per scambiare parole con sconosciuti, si cammina per avere l’idea di andare da qualche parte, si cammina per testimoniare una forma di assenza. Un’opera che visivamente si può associare al senso dell’assenza che si vive oggigiorno è il famoso quadro di Monet “Glacons, effet blanc” (Ghiaccio Effetto Bianco, Claude Monet, 1894). Guardando il quadro è come se si potesse precipitare nel suo biancore e liberarsi dal peso di essere se stessi. Naturalmente, non era questo l’intento di Monet, lui voleva destare la meraviglia della luce, ma quel biancore invitante adduce ad una forma di resistenza passiva al mondo che sospende il divenire. “Il biancore è un momento di torpore, è un lasciar perdere, provocato dalla difficoltà di trasformare le cose. Nell’universo della «padronanza», il biancore è un distacco dall’identità, un non luogo nel quale vengono meno le costrizioni imposte dal mondo circostante.” (D. Le Breton, Fuggire da sé, pp. 17-18, Ed. Raffaello Cortina, 2016) La trama sociale incrocia inevitabilmente quella affettiva, il mondo si propaga dentro di noi: si esce dal tempo degli orologi per inoltrarsi lungo i sentieri che portano al tempo interiore. Questo incessante e indomabile movimento da fuori a dentro, fa spesso emergere una forma di disconnessione ed evidenzia un tempo interno del soggetto, fatto di vissuti e necessità che non trovano spazio, ne dentro ne fuori se stessi, per potersi raccontare in modo efficace. Infatti, ciò che ordina e dà vita nasce dalla congiunzione tra il tempo ordinario degli oggetti, o delle cose del mondo, capace di collegarsi a ciò che ha un senso per noi e per la nostra storia. “Mentre tu dormi le stagioni passano sulla montagna. La neve in alto struggendosi dà vita al vento: dietro la casa il prato parla, la luce beve orme di pioggia sui sentieri. Mentre tu dormi anni di sole passano fra le cime dei làrici e le nubi. Io posso cogliere i mughetti mentre tu dormi perché so dove crescono. E la mia vera casa con le sue porte e le sue pietre sia lontana, né io più la ritrovi, ma vada errando pei boschi eternamente – mentre tu dormi ed i mughetti crescono senza tregua.” (A. Pozzi, Tempo, in Parole, Ed. Ancora, Roma 2015) In questi versi di Antonia Pozzi, poetessa nata nei primi anni del novecento, riscoperta sopratutto dopo la morte, c’è una fotografia dello scorrere del tempo del mondo che fatica a connettersi a un tempo soggettivo. Quel “mentre tu dormi” è una metafora della difficoltà che si ha nel recepire interiormente ciò che incessantemente scorre all’esterno. Come abbiamo sostenuto il tempo soggettivo è dato dall’esperienza psicologica interiore, ma può un’esperienza interiore, condizionata dalla distanza dall’altro, connetterci al tempo soggettivo di un’altra persona? L’incontro con l’altro è un movimento e quindi un’esperienza che non sempre crea piacere o soddisfazione, qualcosa che il tempo ordinario della nostra epoca, caratterizzato dal rendere le cose sempre uguali, verso una omologazione globale, teme. Tanto da produrre una modalità costante, che ambisce all’eliminazione di ogni tensione, che tende ad appianare e levigare la negatività. Nel tempo mitico dei greci troviamo, invece, una espressione diversa che spinge a stimolare la propria mente a stare difronte al mostro, ciò che rappresenta la metafora dell’esserci, dell’esperire. Ovvero, sto di fronte alle difficoltà perché solo attraverso l’incontro comprendo. La necessità di avvicinarsi ad un tempo soggettivo, quindi mitico, è per l’individuo come un suono che si protrae all’infinito dentro di lui. Questo suono scandisce la parola ripetizione: gli eventi si ripetono nel susseguirsi delle epoche, ed è attraverso questo aspetto che la memoria mostra la sua pienezza di significato. Gli eventi possono reiterarsi, e tale ripasso, dona un’indice d’importanza ad ogni singolo evento, rendendo evidente come non sia possibile dare un significato agli eventi fuori dell’esperienza storica del tempo. Questo aspetto crea un rapporto tra passato, presente e futuro, donando un carattere di novità rispetto a ciò che precede: il presente è nuovo rispetto al passato, il futuro lo è rispetto al presente. La difficoltà di dialogo tra il tempo interno e quello esterno, è evidenziata dal fatto che per molti anni è stato considerato il disagio come un disturbo presente dentro le persone. L’individuo doveva trovare un nuovo assetto per se stesso dentro di sé, oggi invece, il disturbo è collocato in massima parte nelle relazioni sociali. Non si tratta più di ristrutturare le strutture intrapsichiche del soggetto, piuttosto, riuscire a portare dentro di lui un mondo accettabile per la propria realtà psichica, aiutarlo a muoversi in uno spazio che ha avuto un crollo nervoso. Non a caso, i nuovi sintomi si evidenziano tramite la frammentazione, la settorializzazione, la perdita di energia, i meccanismi ossessivi. Ne consegue che ciò che sta fuori richiede di essere elaborato diversamente. “Tutte le cose mostrano un volto, il mondo essendo non solo un insieme di segni in codice di cui decifrare il significato, ma una fisionomia da guardare in faccia. In quanto forme espressive, le cose parlano; mostrano nella forma lo stato in cui sono. Si annunciano, testimoniano della propria presenza: «Guardate, siamo qui». E ci guardano, indipendentemente da come le guardiamo noi, dalla nostra prospettiva, da ciò che vogliamo fare di esse e da come di esse disponiamo. Questa immaginativa richiesta di attenzione è il segno di un mondo infuso d’anima. Non solo: a sua volta, il nostro riconoscimento immaginativo, l’atto fanciullesco di immaginare il mondo, anima il mondo e lo restituisce all’anima.” (J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, p. 130, Adelphi, 1982) Nel XVIII sec., nella cripta della chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma, fu costruito un lugubre monumento con centinaia di elementi decorativi, simili ad un mosaico, adornanti le pareti e le volte, costituiti da ossa umane scolorite appartenenti a quattromila confratelli defunti. Sul pavimento la scritta: «Ciò che voi siete noi eravamo, ciò che noi siamo voi sarete». Visitando la cripta, dopo un primo momento di smarrimento, se ci si sofferma un po’ di più a contemplare l’opera, ci si chiede come mai in una città così ricca di capolavori, ci sia stata la necessita di un monumento così intenso alla morte. La potenza espressiva di questa testimonianza porta a comprendere che, in realtà, il mosaico osseo è un invito a vivere una vita densa di significato, ed è proprio l’atteggiamento di una persona verso il tempo ad avere un valore ed un ruolo non secondari. Un battito di ciglia ci separa dal passato remoto, basta guardare una cripta, e viaggiare, così, lungo l’asse temporale, alla ricerca di un contenuto valido per noi. La ricerca di un movimento di riconnessione - verso un “buon tempo” -, tra i due tempi descritti in questo paragrafo, migliora le nostre esistenze aprendoci all’equilibrio e alla temperanza, allentando la stretta di un presente pressante e un futuro vissuto angosciosamente. Come ci ricorda Antoine de S. Exúpery: “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. Non si tratta di rifiutare ciò che abbiamo costruito, piuttosto riconoscere come risulti indispensabile entrare nella complessità, accettare che l’umanità è un movimento di creazione continua, la cui necessità sta nel costruire nuovi equilibri. Per rispondere a questa esigenza è necessario affrontare la tendenza a bloccarsi in qualcosa di immutabile e fermo, come il lasciarsi trascinare da un tempo esterno, semplificato dall’appianamento, depurato dall’attrito. Le esperienze umane che ci hanno preceduto sono diversificate, e risultano preziose per leggere il presente, questo non equivale a retrocedere, quanto a sottolineare l’importanza dei molteplici segnali nascosti che hanno caratterizzato le nostre vite. L’identità umana può essere compresa solo attraverso l’intreccio complesso delle molteplici dimensioni che la costituiscono e che sono state separate attraverso la costruzione di specialismi e di confini disciplinati. E ciò richiede di fare riferimento a tutti i tempi della storia umana, a tutte le culture, a tutte le conoscenze che negli ultimi decenni hanno ampliato e riscritto il quadro dell’evoluzione e della storia umane. “Nel contempo, però, occorre conservare l’attitudine riflessiva, somma dote degli umanisti dell’età rinascimentale”. (M. Cerruti, Il tempo della complessità, p. 168-169, ed. Raffaello Cortina, 2018) L’altro è soprattutto questo.
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