“La capacità di amare, di investire nella vita, di creare e realizzare i nostri sogni è in dialogo costante con la nostra capacità di cercare le verità emotive, di tollerare il dolore e di affrontare il lutto.” (G. Atlas, L’eredità emotiva, Raffaello Cortina Editore, 2022) Le esperienze fanno da contraltare alle emozioni, ed in particolare ad alcuni specifici passaggi emotivi dello sviluppo di una persona che fungono da pilastri della nostra ossatura interiore. Il fatto di ritenere che una verità emotiva conta per noi è connesso alla capacità che abbiamo sviluppato di poterla accettare, ma questo, laddove il rapporto con il dolore è lacerante, non risulta sempre possibile. Le conseguenze di tale aspetto vanno ricercate nei cosiddetti lutti non riconosciuti, oppure non considerati come tali, i quali vengono poco elaborati poiché inquadrati come conseguenze di eventi che pensiamo di poter controllare, come, ad esempio, la fine di un amore, di un’amicizia, di una stagione di vita. Invece, siamo tutti esposti psicologicamente alla condizione del lutto, perché ne abbiamo bisogno per evolvere e perché fa parte della natura del mondo. Le persone che paiono esulare da tale passaggio possono risultare maggiormente esposte ad una risposta debole circa il dolore, mentre, nell’equilibrio interno, riveste una grande importanza essere condotti da un ritmo composto da emozioni piacevoli e spiacevoli, che non penda né troppo da una parte né troppo dall’altra. Non a caso, nel Manuale Diagnostico dei Disturbi (DSM 5), è annoverato qualcosa denominato “eccezione del lutto” (G. Greenberg, Book of Woe, Plume, 2013, pp.6, 158-160). L’eccezione riguarda il fatto di riconoscere a questo evento delle specifiche caratteristiche generali ma che possono evolvere diversamente nel vissuto di ognuno, classificate infatti come eccezione, frutto di tempi di elaborazione differenti da parte del soggetto. La classificazione diagnostica corrente, inoltre, riguardo ai disturbi ansioso-depressivi, ha mostrato alcuni limiti nel definirli attraverso una diagnosi, a causa della complessità dei fattori che influenzano la vita dell’individuo, e che, nell’insieme, concorrono ad uno sbilanciamento del suo equilibrio interno. Non c’è dubbio che possiamo considerare una forma di lutto anche momenti della nostra vita che espongono a ciò che non vorremmo, ma che fanno parte dell’esistere e che hanno ripercussioni sul nostro equilibrio, come ad esempio risultare ricettivi nel 75% dei casi ai disturbi depressivi, dopo aver sperimentato un evento negativo, laddove non siamo circondati da persone amiche che possano offrire un sostegno. Inoltre, la diffusa tendenza sociale a considerare irrazionale il malessere, e, per questo, assumerlo come una forma di debolezza non in linea con una vita di successo, è un altro elemento che porta ad un’esposizione circa il disagio di tipo depressivo. Alla base della gestione dei lutti, e a ciò che rende particolarmente accidentato il percorso verso una soddisfazione di vita, c’è un processo di disconnessione circa i nostri reali bisogni. Man mano che si vive allontanandosi dai desideri connessi ad una realtà del sé, risulta quasi naturale rifuggire le nostre reali esigenze sostituendole con surrogati di più facile ed automatica assimilazione, ma pur sempre surrogati palliativi. Alcune delle cause che creano disconessione in grado di incidere maggiormente sulla nostra interiorità sono:
Il valore dei geni nel cambiamento è un’altro elemento importante per la nostra interiorità. La neuro plasticità cerebrale è qualcosa di cui sappiamo da tempo. Il cervello, infatti, si modifica in base all’esperienza e lo fa per soddisfare le nostre esigenze: snellisce le connessioni che non utilizziamo, coltiva quelle che siamo abituati a far funzionare e che danno la possibilità di stare meglio nel mondo, riconnette quelle che ci servono ad evolvere. Oggi sappiamo che natura e cultura vanno di pari passo e si intersecano creando sofisticate reazioni a livello molecolare le quali permettono di dare forma ad una memoria, per quelli che verranno poi. Tale patrimonio ereditario è volto a sostenere le ragioni di una coscienza individuale in grado di dialogare con il mondo esterno. Conosciamo troppo poco delle nostre storie familiari a livello emotivo, soprattutto perché si tende ad assumere un comportamento diverso da quello della famiglia di origine con lo scopo, spesso inconscio, di modificarne l’eredità emotiva, pensando che così le cose potranno andare bene. Questa strategia risulta poco efficace e, quando lo capiamo, dobbiamo riconsiderare le nostre posizioni, riavvicinandoci ai nostri genitori, che scopriamo così un po’ per volta, senza sapere, tuttavia, cosa portano dentro nel loro profondo. Le realtà nascoste dei nostri padri e madri dominano le nostre vite più di quanto possiamo pensare, e parlano di litigi che hanno portato a chiudere rapporti, di figli frutto di gravidanze indesiderate, di matrimoni che non si è avuto il coraggio di chiudere, o che al contrario, si sono chiusi tra la vergogna generale. Gli “irrisolti” degli altri, così, divengono gli enigmi delle nostre vite e ci spingono a tenerci lontani da parti fondamentali di noi stessi, ma fanno capolino, e si manifestano tutte le volte che assumiamo un comportamento che non è riconducibile a quello che pensiamo di essere. Attraverso questo meccanismo di ritorni l’inconscio ci riporta all’inizio del viaggio emotivo, che qualcuno prima di noi ha intrapreso, per poter riparare il danno. Gli aspetti elencati sopra sono elementi di un processo che ha varie sfaccettature e nel quale incorriamo affrontando la nostra esistenza. Il lavoro interiore può far prendere coscienza di queste implicazioni e insegnare a dirigerle. Risulta centrale comprendere che la nostra mente è in grado di ridurre l’impatto di talune situazioni presenti nell’ambiente, a patto che sia allenata a gestire la propria polarità con perizia. Questo allenamento interiore coinvolge sopratutto alcuni fattori:
Questo cammino interno è necessario per dare al mondo un nostro significato ed è costellato di variazioni sul tema a volte pacifiche ed altre stridenti, sia perché gli esseri umani non sono perfetti, come pure per la necessità che la nostra salute mentale ha di produrre difese per preservare un equilibrio nei vari momenti di vita. Tutto quello che attraversa la coscienza ha una doppia funzione: gestire il nostro dolore da una parte, e nel contempo, dall’altra, individuare e riconoscere il proprio limite per poterlo osservare, con lo scopo di tradurlo, così, in termini di esperienza. Da tale meccanismo non si può uscire, ed è ciò che dobbiamo imparare ad assimilare per poterci riconnettere e darci la possibilità di sperimentare forme di riunificazione della nostra identità personale. Attraverso l’esperienza di riconnessione approdiamo al bello, un insieme di corpo e spirito che guida le nostre ragioni supportando le scelte esistenziali. Un impegno con se stessi che esige una certa fedeltà a ciò che abbiamo dentro, all’interiorità di cui siamo fatti, e al rispetto di ciò che ci suggerisce anche Shakespeare: “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena II). Il sogno è paragonabile al poter abbracciare la realtà multidimensionale ed evolutiva dell’essere per tendere verso la riunificazione di un processo che, dall’interno ci chiede di fare nostre esplorazioni, a volte ardite, ma necessarie per stare nel solco di ciò che ha caratterizzato la nostra storia personale. “La crescente estetizzazione della vita quotidiana rende impossibile proprio l’esperienza del bello come esperienza dell’impegno vincolante, e produce solo oggetti destinati ad un piacere effimero. La crescente volatilità non riguarda solo i mercati finanziari, ma abbraccia l’intera società. Nulla ha consistenza e durata. Di fronte alla radicale contingenza si risveglia la nostalgia di ciò che vincola a un impegno e che trascende la quotidianità. Oggi ci troviamo in una crisi del bello proprio perché il bello è stato levigato divenendo oggetto del piacere, del like, del piacevole e confortevole. La salvezza del bello significa la salvezza di ciò che vincola e impegna a una responsabilità.” (Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo, 2019, p.97) Chi sono io, e a cosa sono in grado di rispondere, vincola ad un patto con se stessi che si muove dentro una alternanza di tensione-risoluzione che, a sua volta, alimenta la fiducia nella forza di una nostra presenza e imprime nel mondo un movimento. “Devota come ramo curvato da molte nevi allegra come falò per colline d'oblio, su acutissime lamine in bianca maglia di ortiche, ti insegnerò, mia anima, questo passo d'addio... “ (C. Campo, Passo d’addio in La tigre assenza, Adelphi, 1991)
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