“Pensiamo che la tecnica sia uno strumento del quale noi deteniamo le chiavi. In realtà la tecnica ha sostituito la natura che ci circonda e costituisce oggi l’ambiente nel quale viviamo... ma la tecnica non tende a uno scopo, non svela verità, la tecnica ‘funziona’.” (Umberto Galimberti, “Psiche e Techne”) Il filosofo Umberto Galimberti stimola, con la sua citazione, verso un universo più complesso di quello che codifichiamo normalmente nel flusso continuo e aggrovigliato delle nostre vite, un universo natura che abbiamo allontanato dal nostro mondo percettivo ed esistenziale, al quale abbiamo sin qui cercato di dare una forma. Nel quadro realizzato nel 1897 da Paul Gaguin, “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, invece, sorge una riflessione sull’esistenza attraverso una serie di figure che si pongono degli interrogativi esistenziali, e dove attraverso la rappresentazione di una natura vivida si sottolinea la circolarità dell’esistenza: vita-morte-vita. L’enigma estetico racchiuso nelle figure rappresentate nel dipinto, svelato in parte solo dal titolo, si configurano come un'indagine figurativa e razionale, voluta con coscienza dall’artista, intorno agli interrogativi che l'uomo si è sempre posto in relazione al proprio essere. Il titolo del quadro esplicita ancor più l’enigmaticità dello stesso, dando pero uno stimolo interpretativo e risultando così una parte fondamentale dell’opera. “Ai due angoli in alto, dipinti in giallo cromo, reca il titolo a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco guasto agli angoli applicato su di un fondo oro. A destra, in basso, un bambino addormentato e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i propri pensieri. Una grande figura accovacciata, che elude volutamente le leggi della prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino. Al centro una figura coglie frutti. Due gatti accanto a un fanciullo. Una capra bianca. Un idolo, con le braccia alzate misteriosamente e ritmicamente, sembra additare l’aldilà. Una fanciulla seduta pare ascoltare l'idolo. Infine una vecchia, prossima alla morte, placata e presa dai suoi pensieri, completa la storia, mentre uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola con gli artigli, rappresenta la vanità delle parole. Tutto ciò accade lungo un ruscello, sotto gli alberi. In fondo è il mare e le cime dell’isola vicina. Malgrado i diversi motivi di colore, il tono del paesaggio è tutto blu e verde veronese. Su questo fondo tutti i nudi staccano in vivo arancione» (Paul Gauguin, Giorgio Cricco, Francesco Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro, “Itinerario nell’arte, Dal Barocco al Postimpressionismo”) Abbiamo più volte descritto la rottura dell’equilibrio tra uomo e natura come alla base dell’aumentato disagio contemporaneo. Su questo intreccio sbilanciato, dove evidentemente ci collochiamo al di fuori della natura stessa in quanto esseri pensanti, si è via via alimentato lo zoccolo duro di una condizione di squilibrio riversatosi in vari aspetti del vivere. Al tempo stesso questa sfasatura ci ha portato ad estendere le ricerche sulle nostre origini. Così, una recente scoperta, straordinaria, ci dice che la nostra discendenza deriva da alcuni microbi denominati “archei” - dal nome greco apxaia che vuol dire antico - dove il trasferimento al nostro dna non è avvenuto per linea verticale, cioè dai nostri antenati a noi, ma si è compiuto, ad un certo punto, attraverso un trasferimento genico orizzontale, quindi, saltando i confini di specie: discendiamo da creature di cui fino a poco fa era sconosciuta l’esistenza, che ad un certo punto si sono spostati lateralmente. C’è una storia affascinante al riguardo che coinvolge lo scienziato Ernest Haeckel, più giovane di Darwin di circa 25 anni, che per tutta la sua esistenza cercò di dimostrare come gli umani siano discesi da altre forme di vita, elaborando però una sua personale versione della teoria darwiniana. Haeckel partì da un’intuizione stimolata da un evento molto doloroso: la morte della moglie Anna. Il dolore per questa scomparsa fu straziante, ed Haeckel si rifugiò a Nizza dove, passeggiando sulla spiaggi, ebbe una folgorazione mentre osservava una splendida medusa in una pozza lasciata dal mare. Vedeva nei lunghi tentacoli dell’animale i capelli della moglie e la soprannominò il cerchietto di Anna, nome scientifico “Mitrocoma Annae”. Da allora si concentrò sullo studio delle meduse descritte nelle splendide “Tavole di Haeckel”, che disegnò personalmente trasformandosi in una figura di artista scienziato il quale, attraverso l’associazione di creature diverse (la medusa e la moglie Anna), aprì il filone naturalistico della discendenza umana ad una più ampia e affascinante visione. Guardando i disegni di Haeckel possiamo affermare che è uno sguardo colmo di sentimento ad averle disegnate, sappiamo da dove viene tutto questo. Ciò a cui approdò Haeckel costituisce l’ossatura di come gli intrecci biologici si colleghino alla memoria, funzione che permise ad Haeckel di intuire, e osservare inizialmente, che esisteva un incrocio con forme di vita diverse dall’uomo. Oggi le scoperte scientifiche contemporanee mettono in discussione la teoria della ricapitolazione di Haeckel, senza però mettere in ombra la sua importanza nel sottolineare il nesso di una relazione profonda tra ontogenesi (stadi dell’embrione) e filogenesi (le tappe che caratterizzano l’evoluzione), data da un nesso casuale sul quale l’indagine è ancora aperta e il mistero non ancora chiarito. David Quammen, divulgatore molto seguito, riprende la tesi del mosaico di forme di vita: ”[...] un embrione umano attraversa fasi in cui assomiglia successivamente all’embrione di un pesce, di una salamandra e di un coniglio. Detto con parole che in seguito sarebbero diventate famose: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi.” (D. Quammen, “L’Albero Intricato”) Lo sviluppo di un singolo organismo biologico (ontogenesi) possiede parallelismi con altri organismi e riassume lo sviluppo evolutivo della propria specie (filogenesi). La scienza sembra suggerirci che biologia e memoria storica, mito e realtà, si muovono su piani paralleli che per ragioni non completamente disvelate s’intersecano, dando luogo a prospettive affascinanti sul nostro legame con gli esseri viventi e con ciò che è accaduto prima di noi. Ecco, il Pensiero Magico è tutto qui: partire da un dato e trovare qualcosa che lo collega su un piano diverso, in grado però di combaciare perfettamente con il significato reale di un evento accaduto. Il racconto mitico di Perseo e Medusa, visto attraverso questa prospettiva, non appare più così favoloso ed irreale, quanto piuttosto una ricerca allargata dei propri confini al fine di dare voce alle parti primitive che hanno bisogno di riemergere attraverso nuove forme, di certo più consone al nostro tempo, nel flusso vitale dell’esperienza. Ciò che è di fondatamente importanza in questi nuovi concetti evoluzionistici è sapere che il progresso si fonda su una tradizione che di fatto viene rielaborata a partire dall’aspetto biologico per poi proseguire, attraverso la trasmissione delle storie del mondo, sul piano psichico. I miti, come elemento formativo per la psiche, appaiono allora tutt’altro che distanti dal nostro mondo di oggi, ma si riprendono la scena per guidarci verso il senso profondo della nostra esistenza. “Il mito [...] addomestica la natura, il tempo, la vecchiaia, la sofferenza, la solitudine e la morte medesima. Non li ferma, non sopprime la loro famelica ferocia; li doma. Li accoglie in casa, ne dà un senso e un destino, infonde stile e serenità, nel segno dell’amor fati e di un più grande disegno di cui la nostra vita è soltanto un punto e un frammento. Sulle tracce del mito l’arte e la poesia, il canto e la danza, il pensiero e la religione domano la morte, il dolore, il tempo, la solitudine, la vecchiaia, la natura e sublimano la nostalgia di persone, tempi e luoghi perduti. [...] Per comporre in un passo d’addio la definizione finale del mito: è la visione, il ricordo e il presagio di una vita superiore, affrancata dal tempo e dal soggetto, oltre la realtà e l’illusione, oltre la ragione e i sensi; nobile e solenne, poetica e significativa, connessa alla storia profonda del cosmo alla luce dell’Essere, di cui ci è noto, oltre il bagliore, solo il mistero. Il mito eleva, volge il silenzio in parola e avvolge il mistero in bellezza; vede sotto altra luce, vede con altri occhi.” (M. Veneziani, Alla luce del mito) Dobbiamo scoprire la magia che ci circonda! Con il mito entriamo in una visione della realtà che possiamo scorgere quanto più la nostra percezione è allenata. I sensi trattengono quello che siamo abituati a registrare, e, allora, sperimentare il mondo vuol dire soprattutto riempirlo del significato che il nostro orizzonte culturale ci permette. L’esperienza dell’umano nella sua interezza apre al magico e ci consegna alla nostra storia in un universo più fluido, meno certo, ma in grado di dare significato ad esperienze molto profonde che ognuno di noi si porta dietro. Tutto passa, ma tutto rimane, niente si perde completamente, si conserva in qualche modo e da qualche parte. “Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo” (P. Florenskij, “Il valore magico della parola”). “Come potremmo dimenticare quegli antichi miti che stanno all’origine di tutti i popoli, i miti dei draghi che nell’attimo estremo si tramutano in principesse? Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi. Forse tutto l’orrore non è in fondo altro che l’inerme che ci chiede aiuto.” (Rainer Maria Rilke, “Lettera a un Giovane Poeta”)
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